Corriere della Sera, 3 maggio 2016
I monaci buddisti tengono in catene le tigri dicendo di essere in connessione spirituale con loro. E intanto i turisti mollano 5 milioni di dollari l’anno
Qui da noi – dicono i messaggi promozionali – le tigri tradiscono la loro natura selvaggia per convivere con gli umani nell’armonia buddista. «Qui da noi», cioè nel Tempio delle tigri di Sai Yok, Thailandia, non lontano dal confine con il Myanmar. Sarà, ma le immagini trasmettono tutto tranne quel senso di «armonia» di cui parlano i monaci. Tigri in catene, in posa per turisti sotto il sole, in una pozza d’acqua stagnante, mansuete come è innaturale che siano... Motivi (fra tanti altri) tutti evocati dalle autorità thailandesi per decidere di chiudere per sempre l’esperienza del Tiger Temple e portare altrove – in un luogo più adatto e a condizioni di vita migliori – tutte le 148 tigri ospitate. Cosa tutt’altro che semplice, come racconta il New York Times ricostruendo anche le accuse di animalisti e varie organizzazioni internazionali che dal 2008 in poi hanno accostato il nome del Parco e dei suoi grandi felini a maltrattamenti, sfruttamento e commercio illegale. Una fama lontanissima da quella degli inizi, quando (era il 1999) arrivò il primo cucciolo portato da un uomo di un villaggio vicino e fu salvato dai monaci che poi ne accolsero altri e altri ancora. Finché la storia dei tigrotti salvati non divenne business: oggi le visite al santuario delle tigri valgono 5,7 milioni di dollari l’anno.
Gli agenti inviati dal governo, a gennaio, hanno portato via le prime dieci tigri (quindi ora ce ne sono 138), poi i monaci si sono opposti con un procedimento giudiziario e la questione al momento è sospesa.
«Solo perché sono monaci credono di avere il diritto di occuparsi di tutti gli animali della loro area» si arrabbia il capo del Dipartimento per la conservazione della fauna selvatica, Teunchai Noochdumrong. «Noi e le tigri possiamo vivere in pace. È una connessione spirituale» replica convinto Supitong Pakdjarung, responsabile commerciale del Parco. Le dieci «emigrate», intanto, «stanno diventando tigri vere» dice una delle volontarie che le segue. Vere. Di quelle che non «tradiscono la loro natura selvaggia».