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 2016  maggio 01 Domenica calendario

Intervista a Toni Servillo, l’uomo che deve rendere conto solo al pubblico

Toni Servillo stringe un sigaro I nella mano sinistra:“Mi aiuta a non rimpiangere l’attitudine. Fumavo 50 sigarette al giorno, ho smesso da 8 anni grazie a un raffreddore” e da sempre dorme male: “Poco e male. Mi sveglio, mi rigiro, leggo”. A metà degli anni 70, in piena notte, si incontrava con suo padre in cucina: “È il ricordo più tenero che ho di lui. Mi trovava alla finestra, a guardare verso un punto indefinito e si preoccupava per suo figlio: ‘Ma che è, che succede Toni?’, ‘Non lo so’, rispondevo. E non ci dicevamo altro perché altro da dire non c’era”. Cesena, mattina, interno giorno. La pioggia che scende oltre le vetrate dell’albergo. Una sala deserta. Un caffè sul tavolo. Un silenzio così simile a quello dell’hotel di Lugano in cui Paolo Sorrentino aveva ambientato la doppia vita, riscatto e condanna di un altro affiliato alla setta degli insonni, Titta di Girolamo. Devono essere una diretta conseguenza dell’amore anche i chilometri che Servillo percorre stagione dopo stagione per essere in scena: “Nel2015 Immesso insieme 200 date. Oggi sono in Romagna, domani mi sposto in Umbria”. Oltre Madrid, Londra, Istanbul, Mosca, Montreal, Chicago, più in là delle realtà internazionali toccate negli ultimi anni, c’è il Servillo che attraversa l’Italia. Autogrill, provincia, ossessione, talento, missione, perfezionismo e tempo, tanto tempo, speso tra un palco per le prove e un’uscita autostradale: “La vita dell’attore militante, quella che ho sempre fatto e che continuo a fare”. Una scelta consapevole: “E la ragione per cui, forse poco romanticamente, non credo all’eroismo della vocazione teatrale. Una vocazione puoi leggerla soltanto quando arriva il momento dei bilanci. Da una parte metti sul tavolo tutto quello che hai fatto nella vita per dedicarti totalmente a una passione divorante. Dall’altra l’elenco delle ipotesi di esistenza a cui hai rinunciato in termini pubblici e soprattutto privati. Il risultato è quello che sei. E non sono previste seconde mani”. Alla rinuncia, in saio bianco, è abituato anche Roberto Salus, il prete invitato dagli 8 uomini che reggono i fili della finanza internazionale a trascorrere un fine settimana sul Baltico proprio alla vigilia di una manovra economica che cambierà le sorti del mondo.
Al cinema, in tonaca, torna dopo una clausura teatrale lunga 3 anni.
«Ma è la mia gioia. La mia necessità. Non solo non mi pesa, ma non posso fame a meno. E comunque, rispetto a ieri, la multimedialità non ti consente mai il lusso o l’azzardo di scomparire veramente. L’altrasera, a recita conclusa, ho incontrato un gruppo di ragazzi: “Sa che abbiamo passato in sua compagnia gli ultimi 5 giorni?”. Avevano ascoltato un audiolibro, visto un film in tv, assistito allo spettacolo».
Nessuno però le ha detto: “L’ho vista in uno spot”.
«Nel momento in cui scegli cosa affrontare e cosa invece lasciar perdere, dai al pubblico un segnale di coerenza o di continuità. Anche nella differenza. Gli eviti un salto incomprensibile, uno scarto brutale».
Cos’altro dà al pubblico?
«Il senso di un atteggiamento nei confronti del mestiere».
Lei sente di avere quello giusto?
«Non sta a me dirlo. Se mi auto incensassi sarei un cretino. Anzi togliamo proprio l’io da questa intervista. Che non c’è niente che mi interessi di meno».
Il teatro è anche una responsabilità?
«Teatri Uniti, la realtà che con Mario Martone, Antonio Neiwiller e Angelo Curti fondai a Napoli nel 1987, sicuramente. Dà lavoro, mantiene famiglie, è un’impresa che vive ancora del lavoro della stessa gente con cui iniziai trent’anni fa nell’assoluta incertezza. Siamo cresciuti fianco a fianco e ci siamo scambiati qualcosa non andando necessariamente sempre d’accordo. Ma alla fine siamo rimasti insieme».
Muovendo i primi passi sul palco avrebbe mai immaginato di arrivare fin qui?
«Non ci ho mai pensato. Con il passare del tempo, più le cose accadono e più ti trovi nella condizione di chiederti: “Com’è successo?” senza mai saperti fornire una spiegazione accettabile».
Che cosa le rivelò il teatro?
«Non scrivevo poesie, non tenevo un diario, non dipingevo e non sapevo disegnare. Capii che con il teatro potevo raccontare non me stesso, ma quel che capivo del mondo. E che potevo metterlo in circolo. C’era una radice che sentivo prossima, quella napoletana. Il napoletano è allenato a offrire quotidianamente una recita di se stesso in cui si concede e si ritrae, si dà e si nasconde. Ha un comportamento sociale che alla recita deve tantissimo».
Nell’interpretare Salus quanto ha attinto all’esperienza scolastica nei salesiani?
«Ho letto uno straordinario viaggio nei monasteri italiani di Giorgio Boatti pubblicato da Laterza, adesso non mi ricordo il titolo perché ‘nu poco di Alzheimer, in effetti, si avvicina».
Cerchiamo?
«Mi è venuto in mente. Si intitola Le Strade del silenzio ed è centrato sulle vicende di uomini che non sono stati monaci fin dalla giovinezza, ma che a un certo punto dell’esistenza hanno abbandonato le carriere di avvocati, professori e scienziati per abbracciare la fede, allontanarsi dal mondo e abbandonare la mondanità».
Niente salesiani come fonte di ispirazione quindi.
«Niente salesiani. Frequentai la scuola tra le medie e il Ginnasio. Più che le ore in aula furono importanti quelle in oratorio. Dalle 14 alle 19, ogni santo giorno. Praticamente vivevamo in un campo di calcio. Giocavamo 70 partite contemporaneamente. Si alzava la polvere. È vero che le botte si davano e si prendevano porgendo spesso l’altra guancia, ma è vero anche che la dimensione e l’atmosfera non erano esattamente monacali».
Il ruolo di Toni Servillo in maglietta e pantaloncini?
«Terzino. Terzino destro. Facevamo i campionati. I salesiani avevano una forte impronta votata alla giustizia sociale e accoglievano i ragazzi più problematici. Nello spogliatoio incontravi il sottoproletario, quello con i seri guai in famiglia e chi veniva considerato un delinquente fatto e finito. Noi piccoli borghesi, nel contrasto, crescevamo. Ci nutrivamo. Capivamo che cosa volesse dire solidarietà anche attraverso il litigio. E poi conoscevamo il cinema. I sacerdoti, forse in continuità con le Edizioni Paoline, erano patiti del cineforum. I film di Bergman, Rossellini e Tarkovskij li ho visti tutti nei cinema parrocchiali».
In aula invece?
«In aula era più dura. L’ambiente era semi-collegiale. Esistevano regole precise e un po’ opprimenti. Veniva voglia di romperle. Non credo sia un caso che molti nappisti e non pochi brigatisti avessero frequentato scuole a orientamento religioso. Passavano direttamente dalla croce alla lotta armata perché certi luoghi forse, anche al di là delle intenzioni, spingevano alla ribellione».
A un certo punto dai salesiani andò via anche lei.
«Non per motivazioni politiche – quelli che tentavano di diventare artisti erano incasellati come inguaribili anarchici che non prendevano mai posizione – ma perché, molto semplicemente, volevo conoscere la vita. Volevo che l’insegnante non fosse necessariamente un sacerdote, che le classi fossero miste, che al primo banco, invece del compagno maschio, sedesse per una volta una bella ragazza. Avevo un’insoddisfazione di fondo. Una mancanza. Napoli e il teatro seppero colmarla».
Perché ha scelto di fare il film di Andò?
«Ho letto la sceneggiatura. Un buon copione indirizza il resto del tuo lavoro sulla base della fiducia che hai nel racconto. Per un attore, credere in quello che fa è fondamentale. E il volano che ti fa alzare la mattina con entusiasmo».
Lei dormirebbe poco comunque, ci ha detto.
«Ma non è che dorma male per chissà quale tormento. Dormo male perché mi piace vivere e a letto mi sembra di perdere tempo».
Se non ci fosse l’entusiasmo? Se diventasse routine?
«Non ne varrebbe la pena. Come dice Eastwood, un copione convincente è l’unica seria ragione per mettere in moto l’infernale macchina che è il set di un film e sottoporsi allo stress di un’avventura così concentrata. Non ha torto. Uno pensa solo alla parte ludica, ma qualche settimana fa sul Nyt, in una scala dei mestieri usuranti, il regista veniva subito dopo il minatore».
Nel film di Andò, arrivato quasi al milione di euro, qualcuno ha visto tracce di Todo Modo.
«Ho l’impressione che molti di quelli che lo citano non abbiano visto né il film di Petri né letto il libro di Sciascia. E l’incasso de Le confessioni, in pochi giorni, è già purtroppo più alto di quello di Todo Modo. Quando uscì nel ’78, in pieno sequestro Moro, venne ferocemente stroncato. “Un patchwork incomprensibile di simbolismi” scrissero. L’unico che lo difese e lo definì “un mistero profano” fu Moravia».
Quindi i due film non possono essere accomunati?
«Né i due film e neanche i due preti, l’immenso Don Gaetano interpretato da Mastroianni e il mio Salus. Don Gaetano è un personaggio totalmente negativo. Convoca la classe dirigente moralmente sul baratro e quando i personaggi iniziano a morire si ha la sensazione che a farli fuori uno per uno sia proprio lui. Alla fine viene ucciso anche Mastroianni e la pistola che lo finisce si rivolge verso il pubblico e spara in direzione della platea».
Il Salus di Andò invece?
«Apre un’ipotesi verso il bene. In due momenti fondamentali del film dice due cose molto chiare: “Non c’è alcuna utilità nel male” e poi, ancora: “Sto dalla parte della pietà perché è l’unico fronte su cui valga la pena combattere”. L’unica parentela tra Le confessioni e Todo Modoè nella sicilianità dei due autori. Andò si è formato con Sciascia, lo ha frequentato, erano amici».
Perché allora il parallelismo forzato?
«Per accorpare semplicisticamente e perché temo che l’incompetenza e l’arroganza ormai la facciano da padroni. Viviamo in anni in cui allegra ignoranza e tracotanza consentono a chiunque di dire tutto su qualsiasi argomento sapendone in verità pochissimo».
E la fa incazzare?
«Non mi fa incazzare, mi dispiace. Mi accorgo che alla dialettica e all’arricchimento reciproco figlio di opinioni e divergenze si preferisce la sordità o lo sparare nel mucchio al solo scopo di poter dire “Io esisto”. Il fenomeno è diffuso, si chiama protagonismo e rivela un’angoscia di non esistere che francamente intristisce. E così facile urlare, così gratuito. In un’altra epoca, il diritto di dire qualcosa, magari senza berciare, noi ce lo siamo sudato».
Cosa racconta Le confessioni?
«L’incontro tra un sacerdote e un gruppo di persone che non danno più la sensazione di capire cosa voglia dire accumulare denaro e proprietà. L’albergo del Nord Europa in cui ci riuniamo somiglia al capolinea dell’Occidente. All’ultima fermata del capitalismo».
È un film sul presente?
«Sull’incapacità di spiegarlo. Sono anni che non sentiamo più parlare di classe operaia, diritti o giustizia sociale. A decidere i destini del mondo è una torma di squali impegnati a mangiare i pesci più piccoli fino a svuotare il mare e ad andare in crisi al ritmo i delle persone che subiscono le loro decisioni».
Al suo Roberto Salus i potenti chiedono di confessarsi.
«Ma lui non scorge pentimento e non concede l’assoluzione a nessuno. Il film è una riflessione cupa, un attacco durissimo ai modelli trionfanti. Un affresco sul timore che in pochi abbiano veramente capito che dall’epoca corrente c’è da temere il peggio».
Il Don Gaetano di Petri era un personaggio negativo. Il suo Salus parla poco, memorizza i suoni degli uccelli con un piccolo registratore, recita poesie in dialetto.
«“Quanno ncielo un angiulillo/nun fa chello c’ha da fa/ ‘o Signore int’a na cella scura scura lo fa inzerrà”. Si intitola A Madonna d’e mandarine ed è la poesia che recito in testa al film augurandomi che in gattabuia finiscano i burocrati che hanno perso la direzione. Il confronto tra il ricco Auteil e Salus riguarda tutti. Affronta temi universali: pietà, pentimento, destino, denaro, bene, male. Salus è un personaggio positivo e un personaggio positivo, nell’immedesimazione, pone lo spettatore in estrema difficoltà».
Perché?
«Perché lo spinge a dire: “Al suo posto, come mi comporterei?”. Con gli eroi negativi è più facile. Ci rispecchiamo, neghiamo affinità e mal che vada ci assolviamo crogiolandoci nel dato di fatto: “Siamo in una comoda merda e da questa merda, alla fine, siamo coperti tutti quanti”».
Che rapporto ha con la critica?
«Non è il mio pensiero principale, ma fa parte del gioco. Da ragazzo, com’era giusto, se leggevo qualcosa di non benevolo, soffrivo. Oggi non posso dire di ignorarla – mentirei – ma affronto il giudizio con più disinvoltura. Sono 35 anni che prendo encomi e legnate ed encomi e legnate continuerò a prendere per il resto della mia vita. Sono felice, non ho niente da recriminare e men che mai ho voglia di fare polemica. Sto benissimo così».
L’esperienza a cosa serve?
«Ad avvertirti quando sei sul punto di compiere una stronzata. Un tempo c’era una critica teatrale, penso a Bartolucci e a Quadri che all’ingresso della giungla ti dava gli strumenti per orientarti in relazione all’orizzonte delle ambizioni e al valore di chi ti aveva preceduto».
A proposito di esperienza, Youth le è piaciuto?
«Amo Paolo e il suo cinema. Youth non fa eccezione. A Sorrentino devo moltissimo».
E la leggenda del Servillo bravissimo, ma antipatico la consideriamo tale?
«Non sono mai andato dietro a questa storia, non mi interessa, me ne frego. Simpatico o antipatico non so proprio che categorie siano. Se viene in teatro con me per 10 giorni mi vedrà solo al servizio dei personaggi e degli autori. Artisti giganteschi come Molière, Goldoni o Eduardo. Non vado in giro a trascinare la mia immagine e l’unico specchio in cui mi osservo e con il quale mi confronto è quello del pubblico. Quello conta. E solo a quello devo rendere conto».