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 2016  maggio 01 Domenica calendario

A cinque anni dall’uccisione di Bin Laden il terrorismo dilaga ancora

Era notte fonda in Pakistan, l’una del 2 maggio passata da nove minuti. Era pomeriggio avanzato dell0 maggio, un giorno feriale negli Stati Uniti, a Washington: l’ora di quella foto che resterà probabilmente l’immagine icona degli otto anni della presidenza Obama: nella Situation Room della Casa Bianca, il presidente, seduto quasi in un cantuccio con un giubbetto da pilota, il suo vice Joe Biden in maniche di camicia, l’allora segretario di Stato Hillary Clinton in tailleur, una mano davanti alla bocca e lo sguardo carico d’angoscia e apprensione, tutti con gli occhi quasi calamitati dallo schermo dove, a migliaia di chilometri di distanza, seguivano l’azione degli incursori.
Un commando di Navy Seal, le unità speciali della marina statunitense, insieme ad agenti della Cia, fece irruzione, nei pressi di Abbotaddir, in un edificio che ospitava Osama bin Laden, lo ‘sceicco del terrore’, il capo della rete di al Qaida, la mente dell’attacco all’America dell’ll settembre 2001: colto di sorpresa, Osama venne ammazzato e il suo cadavere venne sepolto in mare il giorno stesso. L’azione costò la vita a poche altre persone. Nessun militare americano rimase ucciso.
Il nemico pubblico numero uno
Su quell’incursione, i suoi preparativi, le sue circostanze, gli interrogativi furono subito numerosi; e da allora sono state raccontate molte verità, spesso l’un l’altra contraddittoria, storiche o romanzate. Quel che apparve subito chiaro fu che l’eliminazione di bin Laden sarebbe stata un punto forte, se non il punto culminante, della presidenza Osama: l’opinione pubblica americana accolse la notizia dell’uccisione del ‘nemico pubblico numero uno’ in modo favorevole in larghissima maggioranza; il segretario generale delle Nazioni unite Ban Kimoon e numerosi governi non necessariamente alleati degli Usa vi lessero una svolta positiva nella lotta al terrorismo e nella sicurezza globale.
In realtà, l’uccisione di quel vecchio, molto più anziano nelle immagini che ne furono diffuse dei suoi 54 anni, che sopravviveva a se stesso e alla sua organizzazione in un ‘compound’ poco protetto, forse perché contava sulla protezione dei pachistani, alleati non esclusivi degli americani e di tutti quelli che fa loro gioco proteggere, guardando video su un modesto televisore, si rivelò ben presto anacronistica, rispetto a quanto stava avvenendo, senza che l’Occidente se ne rendesse conto, nel Mondo arabo. E 18 mesi più tardi, gli americani andarono a votare per il presidente senza quasi ricordarsi dell’episodio. Per il Medio 0riente, quella primavera 2011 era la stagione di tutte le speranze e di tutte le illusioni: l’individuazione e l’eliminazione di bin Laden fu, forse, l’unica operazione d’intelligence azzeccata dagli americani e dai loro alleati in quel periodo, incapaci come furono di prevedere l’esplosione delle insurrezioni popolari in Tunisia, Egitto, Libia, Siria e – dopo – l’evoluzione delle sommosse. Cinque anni più tardi, quel fermento che la sciava sperare un’alba di sicurezza, pace, democrazia s’è invece rivelato una sorta di brodo primordiale di ogni efferatezza.
Le speranze bruciate del Medio Oriente
L’Egitto del dopo Mubarak è come l’Egitto di Mubarak, con un ex generale al potere impegnato a reprimere il dissenso interno, in nome della lotta al terrorismo, la foglia di fico che molti regimi totalitari utilizzano in questa fase perché alleati occidentali compiacenti tollerino la violazione sistematica dei diritti umani. La Siria è un Paese divorato dalla guerra civile, che ha fatto almeno 250 mila vittime e di cui non s’intravede la fine. E la Libia è una Somalia che s’affaccia sul Mediterraneo, un Paese il cui disordine interno è un’opportunità per l’integralismo jihadista e una minaccia per i vicini nord-africani ed europei.
Sul fronte della lotta al terrorismo, l’eliminazione di bin Laden arrivò tardi per essere davvero efficace e, anzi, contribuì probabilmente ad alimentare una sensazione d’euforia che condusse, di lì a poco, a decisioni sbagliate. Al Qaida e il suo capo avevano già perduto la capacità organizzativa e il carisma dell’11 Settembre 2001 e delle rocambolesche fughe sui monti al confine tra Afghanistan e Pakistan. E altre sigle del terrorismo integralista e altri capi avevano già acquisito potere locale, magari richiamandosi agli insegnamenti dello ‘sceicco del terrore’. Eppure, otto mesi più tardi, gli Stati Uniti ritiravano tutte le loro truppe dall’Iraq, dopo un’occupazione di otto anni che non aveva prodotto né un Paese unito né un Paese sicuro. Obama rispettava, così, una promessa elettorale, ma, tradito ancora una volta dalla sua intelligence, consegnava l’Iraq all’avanzata del sedicente Stato islamico dell’auto proclamato califfo Abu Bakr Al Baghdadi. Nello Stato islamico, confluiscono l’eredità di al Qaida in Iraq – fondata da quell’al-Zarqawi che era una sorta di luogotenente di Osama nel Paese – e la tradizione dei militari baathisti sconfitti, prima, dall’invasione americana e tenuti, poi, ai margini dei progetti di riorganizzazione del Paese.
Le loro milizie, senza l’opposizione tecnologica e professionale delle forze armate americane, s’impadronirono d’una grossa fetta del territorio iracheno prima che l’Occidente capisse che cosa stava accadendo. Forse anche per questo, l’anniversario dell’eliminazione di bin Laden non viene ricordato negli Usa in modo altisonante: Obama, che è alla fine del proprio doppio mandato, non ha motivo per farsene vanto; e l’opposizione non ha motivo per rendergliene merito. E Hillary Clinton? Nella famosa foto della Situation Room, l’ex segretario di Stato, in testa alla corsa per la nomination democratica alla Casa Bianca, appare troppo emotivamente coinvolta per fame un’immagine della sua campagna: non mostra, lì, la freddezza del comandante in capo.