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 2016  maggio 01 Domenica calendario

Lucia Annunziata parla di fusioni, della Rai e di Renzi

Stampa-Secolo XIX-Repubblica, Ansa-Agi, ma anche Mondadori-Rcs libri. E poi: La7 e Corriere della Sera, Mediaset-Vivendi. E il momento delle concentrazioni. Siamo venuti a trovare Lucia Annunziata, direttore di Huffington Post Italia in largo Pochetti, dove ha sede il gruppo di Repubblica. Lei ci accoglie così: “Non mi voglio sottrarre alla domanda, anche se Huffington è coinvolto nella misura in cui è realizzato in collaborazione con il gruppo Espresso. Le concentrazioni si stanno facendo in tutte le parti del mondo e coinvolgono prevalentemente la carta stampata che è il malato grave dell’editoria. In Italia questa corsa alla concentrazione avviene in condizioni particolari – l’avvento di Renzi e la fine del berlusconismo – che ha significato anche la fine di vent’anni di paralisi in cui il Paese e il sistema di comunicazioni hanno vissuto per colpa del conflitto d’interessi. Una situazione che noi abbiamo pagato perché il sistema delle comunicazioni è oggi la parte ricca dello sviluppo, la locomotiva che traina il futuro economico, che tende a unificare tutto intorno alla “convergenza” dei sistemi, carta, Tv, web. Per tenere fermo Berlusconi, abbiamo tenuto fermo tutto: la più grande battaglia è stata tenere Berlusconi lontano da Telecom, cioè dalla rete che gli avrebbe dato un vantaggio assoluto sugli altri concorrenti”.
Queste operazioni si assomigliano?
«Non proprio: Stampa-Repubblica mira a consolidare la carta stampata. L’offerta pubblica che ha lanciato Cairo sul Corriere mira a unire un quotidiano e una tv, una operazione fra due media diversi che però ha in sé il grande atout di coniugare contenuti su canali diversi. Con Vivendi Mediaset ha finalmente avuto, sia pur solo in parte, accesso a una Tlc, fondamentale perché la televisione di domani passerà tutta su Internet».
La Federazione della stampa chiede un aggiornamento legislativo per tutelare l’autonomia delle redazioni e la libertà d’informazione.
«Come dicevo, queste operazioni sono tra loro diverse ma hanno un comune denominatore: sono praticamente a costo azero, senza investimenti. E qui è giusta la critica del sindacato perché ci saranno ristrutturazioni a suon di tagli. Le concentrazioni non sono sbagliate in sé, l’errore è farle solo per ridurre i costi e non per investire cercando un nuovo modello. Se il modello cambia, l’indipendenza si garantisce su altre basi. La questione economica è molto importante ai fini dell’indipendenza: nei media oggi si lavora con sempre meno persone a cui è chiesto di lavorare sempre di più a uno stipendio più basso. Negli ultimi dieci anni si sono affermati parallelamente ai media tradizionali molti siti d’informazione: queste esperienze non sono riuscite a sostituire la Tv o un giornale, eppure hanno introdotto nel sistema complessivo un ampliamento dell’accesso, una moltiplicazione di voci che già di per sé è una garanzia di indipendenza e pluralità. Si tratta di lavorare in questa direzione e trovare un modello economico che consolidi tutto il cambiamento in corso oggi. La libertà – storicamente – non la danno solo le leggi e non te la regala l’editore. L’indipendenza si ottiene con il lavoro che si crea».
Enrico Mentana ha detto: dando contenuti giornalistici gratis sul web siamo diventati i più implacabili concorrenti di noi stessi. Vero?
«Lo sbaglio sta nella prospettiva; siamo al centro di una rivoluzione che durerà decenni, non dobbiamo ragionare come se questa situazione fosse un approdo definitivo. I contenuti gratuiti sono stati un primo passo, che necessariamente doveva essere fatto. Si doveva aprire il castello, che secondo me è la vera metafora del nostro mestiere. Per decenni il giornalismo è stato una fortezza chiusa, una parte dell’informazione sarà sempre gratis. Ma il punto è trovare, come si diceva prima, un nuovo modello economico che paghi l’impresa della informazione».
Il web è al centro del dibattito sia perché incarna il sogno delle democrazia diretta, sia perché è un “media immediato”. Il premier ha inaugurato un nuovo modo che esclude l’intermediazione della stampa, “Matteo risponde”.
«Così il premier sceglie cosa dire e quando, senza contraddittorio immediato. Ma la Rete ha in sé l’antidoto, cioè il fatto che chi fruisce quel contenuto può commentare la sua versione, contraddirla, opporre altre opinioni».
Internet genera un frainteso senso di egualitarismo: un’opinione non informata vaie quanto una qualificata.
«Ripeto: lo sbaglio è pensare che la situazione di oggi sia cristallizzata. È un processo. In cui molte cose cambieranno, i siti si specializzeranno sempre di più. L’esempio può essere il NY Times che ha un marchio tale per cui porta la sua autorevolezza anche sulla rete, eliminando i troll e i bulli. Il rapporto fiduciario con il giornalista e la testata non viene meno sul web».
Il premier è insofferente verso la stampa. Perché?
«Tra politica e giornalismo c’è una grande simbiosi. Non c’è direttore di giornale che non pensi di poter fare meglio il premier di quello in carica. E viceversa. Sono due mestieri tra cui esiste una tensione narcisistica pazzesca. Lo spasmodico desiderio di controllare i media è una caratteristica comune a molti leader, qui si cita Berlusconi, ma penso anche a Blair, per esempio, o a Clinton. Renzi vorrebbe che tutti i giornali lo lodassero, e contemporaneamente è anche mosso dal desiderio di spiegare come si fa a fare quei giornali. Perché? È arrivato a Roma con una cavalcata sfondando il portone di Palazzo Chigi a calci: per questo, più di altri, ha bisogno di stabilizzare il suo dominio. Quel che re sta dei poteri forti ci ha messo poco tempo per saltare sul carro. Restavano da conquistare due categorie: i giornalisti e la base del suo partito. Ha fatto grandi sforzi per conquistare i primi e completamente ignorato i secondi. Non ha lavorato nemmeno dieci minuti per ristabilire quella che ai tempi del Pei si chiamava la “connessione sentimentale” con il Paese e con i suoi elettori».
Da ex presidente della Rai, cosa pensa della riforma?
«Quale riforma? Hanno fatto solo un ritocco alla governance. Tutto il resto non è stato toccato perché in Parlamento Renzi ha bisogno di tutti i voti e per riformare la Rai qualcuno bisogna scontentarlo. La questione oggi è capire se questo gruppo dirigente riesce a modernizzare un pachiderma come la Rai. Il vertice per ora mi sembra interessato ai contenuti e poco alle purghe: non sento il clangore delle armi. Però giudicheremo dal prossimo anno, con i nuovi palinsesti. Mi sembra che viale Mazzini viva un momento sospeso: i partiti non sono né dentro né fuori, anche perché non ce n’è bisogno visto che non c’è, come spesso capita, grande opposizione al governo. La vera questione riguardale regole, che non sono cambiate: ho sempre pesato che fosse necessario mettere un muro tra la politica e la tv pubblica, mi riferisco alla famosa Fondazione che dovrebbe essere l’editore. Non è stato fatto. All’inizio della nostra chiacchierata abbiamo discusso di grandi mutamenti nell’editoria: chi mancava? La Rai. Il rischio è che mentre gli altri cambiano pelle per muoversi più velocemente, il pachiderma resti indietro».