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 2016  maggio 01 Domenica calendario

È meglio essere Kafka o Coelho?

Un mio laureando piuttosto bravo, un po’ snob e dalle smaccate ambizioni letterarie mi ha chiesto: «Che dice, è meglio essere Kafka o Coelho?».
Trovando la questione frivola e insensata ho manifestato la mia difficoltà a immedesimarmi sia nell’uno che nell’altro. E visto che insisteva l’ho invitato a non perdere tempo con certe sciocchezze e a sbrigarsi a consegnare la tesi.
Nei giorni seguenti il suo dilemma ha iniziato a ronzarmi in testa, sedimentando in modo subdolo: forse perché Kafka e Coelho, per ragioni diverse, godono della mia ammirazione. Come non apprezzare il genio per gli affari di Paulo Coelho? Ripensavo alla volta in cui una ragazza con cui uscivo (una sua fan entusiasta) mi portò a una presentazione. La sardonica serenità di quell’uomo era così contagiosa che mi domandai se non derivasse dall’affetto di milioni di lettori, un’esperienza preclusa a Kafka.
Il che spiega retrospettivamente la domanda del mio studente: è meglio scrivere libri così così che leggono tutti o capolavori assoluti senza lettori?
Per amor di verità occorre dire che i lettori sono arrivati anche per Kafka, ma con che ritardo! «Postumo» è uno degli aggettivi più strazianti della nostra lingua. L’idea che Kafka non sapesse di essere Kafka non smette di angustiarci, malgrado non ci sfugga che parte della grandezza di essere Kafka consista nel non saperlo. Possiamo solo immaginare la gioia creatrice di scrivere La metamorfosi, così come confidiamo che Coelho abbia più di una ragione per gioire del suo alchimista, motivi più concreti di quelli di Kafka, uomo peraltro di proverbiali insoddisfazioni.
Comunque, dopo essere caduto nella trappola del mio laureando, ho tirato un sospiro di sollievo: avendo superato da un pezzo l’età delle grandi domande e delle sfrenate ambizioni, ho il privilegio di sapere che non sarò mai un genio come Kafka né un riccone come Coelho. La cosa, ben lungi dall’angustiarmi, mi rilassa. Del resto, ho di che esser fiero: mi vanto di non aver mai firmato un appello e di non aver mai scritto un verso.
Né geni né milionariD’altronde, non c’è nulla di esemplare nella parabola artistica di Kafka, tanto meno nell’ascesa imprenditoriale di Coelho. La maggior parte degli scrittori che leggiamo non sono né geni né milionari; conducono, o hanno condotto, esistenze qualunque: bollette da pagare, matrimoni, divorzi, alimenti, figli da crescere, editori da compiacere o tenere a bada, e tanti rospi da mandare giù. Ciò che li distingue da qualsiasi altro borghese in circolazione è che per campare hanno scelto di scrivere, e scrivere come diceva Simenon è «una vocazione all’infelicità». Gli avvocati che conosco non stanno sempre lì a chiedersi se sono – o se potranno mai essere – i più grandi avvocati del mondo. Svolgono la professione forense al meglio, godendone i frutti e la cosa finisce lì. I pochi scrittori che frequento sono animati dalla smania vanagloriosa di prevalere su tutti gli altri, e annichiliti dal sospetto della propria mediocrità che con l’età diventa una certezza.
Il santo patrono di questo tipo di scrittore non è certo Kafka, tanto meno Coelho, bensì Gustave Flaubert. È lui il nostro agente all’Avana. Era uno sbarbatello, non aveva ancora pubblicato una riga che già stava lì a lagnarsi della sua mancanza di talento, di ciò che lo divideva dai Grandi: «Quello che mi manca è enorme, anzitutto la spontaneità di ciò che è innato, poi la perseveranza del lavoro». Ecco lo scrittore per antonomasia, eternamente insoddisfatto e tuttavia sempre e comunque indomito.
Che personaggio Flaubert!«Si arriva allo stile unicamente con un travaglio atroce, con un’ostinazione fanatica e devota». Così scriveva Flaubert il Ferragosto del 1846 alla sua amante Louise Colet. Aveva più o meno l’età del mio laureando e la testa piena di domande non meno oziose. Il dado era tratto: sarebbe diventato scrittore. Un paio di anni prima, tornando da Deauville, aveva avuto la celebre crisi (epilessia? attacco di panico?) che gli aveva permesso di abbandonare gli studi, inducendo i genitori ad acquistare la grande casa di Croisset. I signori Flaubert erano abbastanza ricchi e lungimiranti per garantire al loro secondogenito una carriera di scrittore a tempo pieno, privilegio ancora oggi concesso a pochi. Avrebbe impiegato una decina d’anni a pubblicare il suo primo libro ( Madame Bovary ), passando attraverso penosissime crisi: su tutte la stesura della Tentazione di Sant’Antonio, che i suoi amici Maxime Du Camp e Luis Bouilhet gli consigliarono provvidenzialmente di dare alle fiamme.
Borges sostiene che si deve a Flaubert la creazione di un tipo umano persino più immortale della Bovary: il personaggio Flaubert. Che paradosso per un tipo così ossessionato dalla privacy e dall’impersonalità. Borges ritiene che Flaubert abbia inventato «l’uomo di lettere come sacerdote, come asceta e quasi come martire». Senza di lui non avremmo avuto anacoreti dell’arte narrativa come Kafka, Salinger e Pynchon. C’è chi dice che se Flaubert avesse messo nei romanzi un po’ dello spirito appassionato che trasuda dal suo epistolario, avrebbe scritto libri migliori. Su questo non so che dire, ma è difficile nascondere il numero di proseliti generati dalle concezioni artistiche flaubertiane. Alla fine della sua vita, avendo perso una parte cospicua del patrimonio, Flaubert confidò a un’amica quale consolazione fosse per lui avere un libro da scrivere ( Bouvard e Pécuchet ). Lo aspettavano anni di solitudine (aveva un debole per le stanze silenziose e ben scaldate); lunghe laboriose ore da dedicare a ciò che aveva di più caro; una media di ottanta pagine l’anno vergate con la meticolosità di un miniaturista giapponese.
Lascia che i libri invecchino con teTurgenev racconta che Flaubert poteva intrattenerti per ore sul motivo che lo aveva spinto a cassare quel pronome relativo o a ripristinare una certa virgola. Un tempo leggevo certe testimonianze con entusiasmo, enfatizzandone soprattutto i lati patologici. Che carattere! Che caparbietà! Che solerzia! mi dicevo pieno di ammirazione. Oggi mi chiedo se un pronome relativo e una virgola ripristinata possano davvero cambiare le sorti di un romanzo. E se i motivi accampati da Flaubert per giustificare una simile pedanteria (la ricerca della parola giusta, della frase perfetta) non fossero pretestuosi.
Di recente Stephen King, noto per la sua straordinaria prolificità (quasi un libro all’anno), si chiedeva per quale ragione alcuni suoi colleghi (pensava soprattutto a Donna Tartt) impieghino almeno dieci anni per scrivere un libro e perché la critica giudichi tale lentezza con rispetto e considerazione. King faceva notare en passant come le biblioteche abbondino di capolavori scritti in poche settimane e di schifezze rimasticate per una vita intera. Per esempio ricordava come Roth abbia impiegato meno di due anni a scrivere Pastorale americana. Stendhal ci mise un mese e mezzo a redigere La certosa di Parma e Dostoevskij ancor meno a scrivere Il giocatore. Per non dire dei mostruosi tour de force di Balzac e Dickens. Non è detto che un libro iper-revisionato sia meglio di un libro scritto di getto. Tuttavia King sottovaluta che molto spesso i narratori indugiano per loro esclusivo diletto. C’è chi ama invecchiare accanto al proprio libro, come si fa con un coniuge amato. Forse la lentezza di Flaubert non dipendeva solo dall’odio per i pronomi relativi e le virgole sbagliate. Forse i tempi lunghi rispondevano a necessità più urgenti della mera impeccabilità formale. Forse lui desiderava che ciascun romanzo rappresentasse un pezzo della sua esistenza, come se il tempo speso a scriverlo contasse più del libro stesso. «La vita di Flaubert – ricorda Henry James – è quasi esclusivamente la storia della sua fatica letteraria, tanto che parlare dei suoi cinque o sei romanzi, significa darne press’a poco l’intero resoconto». Quale altro scrittore, prima di Flaubert, ha fatto dello scrivere il solo scopo della sua vita e della sua vita l’occasione propizia per scrivere? Non aveva mai voluto sposarsi, inorridiva alla sola idea di procreare, coltivava un nichilismo tetro e derelitto: «La vita è una cosa atroce. Come un piatto di minestra su cui galleggino dei capelli umani. Ma bisogna rassegnarsi a mandarla giù». Poco prima di morire confidò a George Sand di aver sempre avuto paura della vita. I suoi libri erano allo stesso tempo uno strumento di tortura e di piacere. Stare su un romanzo, non mollarlo, lo rendeva più felice che raccogliere i consensi e i proventi della pubblicazione. Tutto qui.
Grida di felicitàUn altro mito flaubertiano ritrae Gustave che sottopone le pagine iper-rifinite alla cosiddetta prova della guelade. Era solito recarsi in un viale di tigli a ridosso della casa di Croisset, allo scopo di leggere le sue frasi a voce alta, o per essere più precisi di strillarle come un ossesso. Vargas Llosa (altro impenitente flaubertiano) ritiene che affidasse all’orecchio il compito di dirgli «se aveva colto nel segno o se doveva continuare a cercare vocaboli e frasi fino a raggiungere la perfezione artistica». Ho sempre trovato buffa l’immagine di questo gigante normanno che nella solitudine della campagna recita con tono stentoreo le scene in cui Emma cede a Rodolphe o Frédéric confessa il suo amore a Marie Arnoux. Eppure, accanto al ridicolo, come non vedere anche gioia, fuoco, orgoglio? Flaubert cercava ciò che Proust avrebbe definito «la canzone dello stile», la melodia intima e solenne delle grandi pagine di narrativa. E possiamo immaginare che se ne compiacesse. Si sottovaluta l’aspetto edonistico dell’ossessione flaubertiana. È vero, scrivere lo rendeva infelice, gli provocava spaventose emicranie, complessi di inferiorità, ma era la sola via d’accesso alla gioia.
Voglia di tenerezzaEppure anche il flaubertiano più entusiasta finisce prima o poi per esprimere qualche perplessità. C’è chi trova il suo stile troppo legnoso; chi lo accusa di essere artefatto; chi gli rimprovera l’imperizia nel cucire una scena all’altra: troppo preso dalla singola immagine, incapace di staccarsene, eccolo indugiare voluttuosamente sul dettaglio a scapito della fluidità e della naturalezza della narrazione. In effetti ti basta una pagina di Jane Austen per renderti conto di ciò che manca a Flaubert. Non certo, come più volte è stato detto, la gioia, ma se possibile qualcosa di ancora peggiore, qualcosa che riesco a mettere a fuoco soltanto oggi.
All’età del mio laureando conferivo parecchia importanza al dolore, al risentimento e all’indignazione. Vivevo nella certezza livida che per scrivere qualcosa di buono occorresse affliggersi e odiare. Mi dolevo ogni volta che sospettavo di non aver sofferto abbastanza o di non aver trovato niente degno della mia ostilità. Flaubert faceva decisamente al caso mio. La fatica che gli era costata ogni frase e l’astio che provava per qualunque cosa: se stesso, i suoi personaggi, la vita, il mondo intero. Al posto dell’ironia, gelide secchiate di sarcasmo. Nessuna comprensione, solo disprezzo. Forse è questo ciò che impedisce all’aria di fluire liberamente nelle sublimi pagine flaubertiane. Lui, che desiderava tanto svanire nelle sue pagine, non sapeva dove nascondere la rabbia. Giudicava tutti.
George Steiner ha scritto che chi non avverte che Tolstoj e Flaubert giocano in campionati diversi non ha orecchio per la letteratura. Quando lessi questa frase apodittica e oltraggiosa m’indignai: oggi non posso che sottoscriverla. Ciò che manca a Flaubert è la tenerezza.