L’Illustrazione Italiana, 9 gennaio 1916
Scipio Slataper
Natale di quattr’anni fa, fiorentino. Nella trattoria del Paoli, a mezzogiorno, entrò Slataper1: aprì, scrollò il gran mantello nero gocciolante di pioggia, liberò la testa bionda dal gran cappello nero. Rise. Era in cuore più fresco ancora di tutto quel bagnato che portava di fuori. Lo si guardava con letizia limpida; si pensava ai moschettieri, a Sigfrido… Mi parlò della «bora» triestina. Quando uscimmo, e si traversò la solitudine lucida della piazza, un compagno raccontava d’una propria recente tragedia di scarpe rotte; e rise di nuovo, Scipio, tutta la piazza nel deserto borghese dell’ora, ora di desinare natalizio, giocondamente appartenne a quel fragor di risate. Poi forse si entrò al caffè, non so più, o io lasciai subito la comitiva e risalii alla mia stanza, sopra l’Arno, verde malgrado la pioggia, e sul ponte i viandanti con gli ombrelli avevan tutti un passo uguale.
Ancora è il 25 dicembre. Piove ancora. Sono in una stanza di Milano, con delle mammole e delle rose rosse giuntemi da Firenze. Rose. Come ad un combattente in trincea, dono di gentilezza. Non ci son spazii vuoti, nessun interstizio nella vita. Radiosa tra fiori come questi, ma di maggio, vidi, ancor quell’anno, presso quello stesso Ponte delle Grazie, la prima volta la creatura che Scipio mi presentò come sua promessa: radiosa, soavissima; scendevan dai Colli, ed era anche mezzogiorno, ma di maggio. Slataper era tutto trasparente d’amore, una lunga finestra d’alabastro bionda nel sole.
Quando ho saputo ieri ch’è morto, per la sua sassosa montagna, per il suo Carso, ho tratto fuor dal baule il suo libro, dove lo misi una settimana fa, partendo per quassù, lo misi non so con quale oscuro istinto.
«Vorrei dirvi: sono nato in Carso, in una casupola col tetto di paglia annerita… Vorrei dirvi: sono nato in Croazia, nella grande foresta di roveri… Vorrei dirvi: sono nato nella pianura morava… Vorrei ingannarvi… Ma voi siete scaltri e sagaci. Capireste subito che sono un povero italiano che cerca d’imbarbarire le sue solitarie preoccupazioni. È meglio ch’io confessi d’esservi fratello, anche se talvolta io vi guardi trasognato e lontano e mi senta timido davanti alta vostra coltura e ai vostri ragionamenti…».
Cominciò così a leggere nel manoscritto una sera per me la voce gorgogliante bassa di Scipio Slataper. Fino a tardi nella notte lesse: l’intero libricciuolo: che gli somigliava: bello, vergineo; con pagine di rugiada; con parole azzurrate come i suoi occhi; e il disegno dei capitoli ricorda l’andatura del suo passo, e ad ogni strofa par vi stringa la mano, forte, veloce.
Come in vita, gli somiglia in morte. Ché c’è un senso nodosamente tragico del dovere: altri direbbe: un senso Kantiano. Fu attraverso lui vivo ch’io meglio compresi, senza ch’egli lo sapesse, uno dei più fieri destini ch’abbian rigato un momento il cielo del nostro tempo, Ottone Weininger, ebreo d’Austria, suicida a ventidue anni per amor dell’assoluto. In Scipio Slataper non s’è manifestata la forza geniale travolgente di Weininger; ma la qualità della coscienza era identica: frutto anche in Slataper d’origini contrastanti. E s’è fatto ammazzare per attestar disperatamente la propria unità morale. Forse così quell’altro triestino, Fauro, che non ho conosciuto. Per ciascuno dei valori più o meno grandi che questa guerra simbolicamente trasceglie a vittime, da Charles Péguy in Francia a Renato Serra qui fra noi, si potrebbe, credo, trovare una spiegazione spirituale della loro fine, al di fuori di quella del sacrificio alla patria alla nazione al mondo. (Se spiegare giovasse a consolare. Se il dire alla giovine donna che piange l’amato e ha fra le braccia un bimbo nato ieri, il dirle che il suo uomo si sarebbe spezzato ugualmente sul limitare di giovinezza anche senza l’assurdo di questo moto tellurico che dura ininterrotto da mesi, se il dirle questo potesse lenirle il dolore, placarle la santa elementarità del pianto). Fra tanti innumerati morti quelli che prima di morire eran veramente vivi, avevan la sorte segnata: la guerra non è stata che l’occasione. Pochi. Così misteriosamente savie sono le leggi di qualsiasi più irragionato fenomeno catastrofico.
Scipio Slataper nacque per esprimere un pietroso carattere volontario; per ripetere che gli istinti più sani, gli organismi più ricchi, le forme più finitamente belle, possono esser cause e campi di patimento, dolorosi privilegi, segni di Dio, quanto la miseria il malore la deformità; era un superatore di quella capacità di gioia che recava in sé generosa (aveva meditato e amato Ibsen); di quel suo caldo desiderio di salutare in tutti gli uomini dei fratelli; egli che sapeva pure considerarli come cose: «la bella cosa viva ch’è l’uomo! Vien voglia di combattere». Facendo il suo libro di poesia, il libro della sua lirica adolescenza, scriveva e realmente pensava: – «avrei dovuto fare il commerciante… Ah, quel caffè che nel Brasile fiorisce male questa primavera!». Ma l’urgeva la primavera sua viva, torse il senso indistinto ch’era quella la sola stagione che gli toccasse vivere e dire. Con fedeltà di singhiozzo, con tutta la smarrita concitazione di chi dopo non cercherà mai più sé stesso e la ragione del mondo: necessità d’assolvere direttamente, fuor d’ogni imparato verbalismo, in uno stile proprio anche se grezzo, le parole più tremende: amore, lavoro, morte.
Dopo quasi tre anni, che non ci si rivedeva, il giorno della dichiarazione della nostra guerra mi sono incontrata a Roma con lui e con la sua sposa.
Son salita alle loro piccole stanze, conm’essi un tempo da me. Uguale la stretta di mano, forte commossa. Uguale sol quella, tacita veloce. E il gesto gentile con cui mi mostrarono sul caminetto una cartolina ch’io avevo loro mandato giorni innanzi da Assisi, una Santa Chiara tutta dolce, tutta pensosa. Scipio.
Sentii che guardava alle creature laudate da Francesco e all’eterna freschezza e all’eterno ardore delle stelle come ad imaginazioni remote. Che la sola realtà per lui era ormai la carta dei confini nazionali, spiegata sul tavolo. L’attesa della nomina a granatiere. Sentii aver egli deliberato – creduto di deliberare – che la sua sensibilità meravigliosa, grazia, benedizione anche nello strazio, non doveva pregiudicare la perfetta macchina di guerra, ch’egli, triestino, voleva essere.
L’ho riveduto ferito la prima volta: era tornato la vigilia, e quasi nulla mi disse. Mai più nulla, che dopo non ci siam più trovati.
Non so, in questo Natale milanese, presso questi fiori, che cosa io stia precisamente scrivendo. Io che non posso esaltar la morte nel carnaio guerresco. E che tuttavia non impreco.
Egli aveva detto, d’una fanciulla amata e perduta: «Benedico il giorno che sei nata e il giorno che hai voluto morire».
Penso che mi resterà di Scipio Slataper (continuo a parlar di me, ma è il solo modo ch’abbia io per dire ch’egli è stato un vivo) più verace di tutte un’imagine che oggi non ho ancor richiamata: ch’ebbi di lui in sogno, una notte, quella primavera che di tanto in tanto ci si vedeva e ci si parlava, sereni, io sorella maggiore di molt’anni. Che lo scorsi in un baleno tramutarsi, di sorridente farsi grave, assorto, protendersi verso le mie palpebre ch’era il calate e pur vegliavano. Volti nostri lucenti come i nostri spalancati occhi mai seppero l’un dell’altro. Brividente salutazione in sogno. Alla sua donna dirò, per suo figlio, se la vita vorrà.
Note: [1] Scipio Slataper nativo (li Trieste faceva parte di quell’eletto manipolo di intellettuali irredenti che durante la neutralità sostenne la necessità dell’intervento dell’Italia contro l’Austria e che allo scoppio della guerra si affrettarono ad entrare nel nostro esercito. Questa propaganda egli fece come redattore del Resto del Carlino, in una serie di articoli. Lascia un libro: «Il mio Carso», che fu molto discusso e che rappresenta una delle opere più significative che siano apparse in questi ultimi tempi. Fu anche attivo collaboratore della fiorentina «Voce».
Nei primissimi giorni della guerra, lo Slataper, che si era arruolato volontario in un reggimento di granatieri, partecipò all’aspro combattimento in cui rimase ferito mortalmente l’eroico maggiore Manfredi. Egli stava soccorrendolo, allorché fu colpito, a sua volta, alla faccia e al braccio destro da scheggie di granata. Guarito da queste due ferite, ritornò qualche mese fa al campo col grado di sottotenente, e ora, in un nuovo combattimento, ha trovato la morte il 3 decembre.