Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 1916  gennaio 09 Domenica calendario

Tommaso Salvini e la gloriosa pleiade dei tragici

Si potrà spiegare un giorno perché tutto un largo periodo della vita italiana, sotto il regime dispotico, fiorì di vera grandezza nella creazione musicale e negl’interpreti del canto e della drammatica?... Fu una «risultante di forze» – usando una frase scientifica – quella che si determinò allora ? Che «combinazione»  e «caso» sono le parole più stupide del dizionario. Tommaso Salvini appartenne a quella folta schiera di grandi; e ne era l’ultimo superstite.
Nato il 1° gennaio 1829, a Milano, da padre toscano e da madre napolitana, morì quasi d’improvviso l’ultimo dell’anno, a Firenze, eletta a città del suo riposo di gloria; Firenze che lo venerava come degno fratello dei tanti incliti spiriti di quella bellezza artistica che raggiò dalla città dell’Arno, come aurora, per secoli continua.
Il Salvini esordì, nel 1843. quale David nel Saul dell’Alfieri, accanto al suo maestro Gustavo Modena, com’egli raccontò in Ricordi, aneddoti ed impressioni, più sobrii, più saggi di quella lunga autobiografia. Quarant’anni di vita artistica, che al suo coetaneo (nato anch’egli nel 1829) compagno di gloria ed emulo, Ernesto Rossi, piacque di mandare alla luce per conforto dei posteri.
Gustavo Modena, maestro dei maestri, fu anco cospiratore e milite sul teatro. Egli seguiva l’Alfieri che, come dice il Leopardi, «in su la scena mosse guerra ai tiranni». Mazziniano, quantunque, col solito suo spirito caustico, deridesse l’agitatore chiamandolo «pestalacqua» perché mai le imprese del Mazzini felicemente riuscivano. Gustavo Modena convertì il teatro in trincea nel senso glorioso che oggi si dà a questa parola. Negli «Atti segreti» che il Governo austriaco lasciò negli archivi di Milano nella sua fuga al domani di Magenta, Gustavo Modena è trattato dalla polizia come capo pericoloso. Gli ammiratori della sua arte erano anco i suoi fratelli di fede liberale. La vita italiana si concentrava quasi tutta allora nei teatri; e Gustavo Modena né approfittò per le sue espressioni più eloquenti contro i despoti.
A Milano, nel Figlio di Cromwell dello Scribe, il Modena doveva dire: «Bisogna salvarla questa pagina». E il Modena, con enfasi tutta sua, sostituiva: «Bisogna salvarla questa patria». Da qui, battibecchi con la polizia che avea capito molto bene e il Modena che voleva persuaderla di aver capito molto male. Gustavo Modena fu chiuso per quarantott’ore nelle carceri di Santa Margherita.
Il conte Carlo Leoni di Padova, nel suo libro Dell’arte e del teatro nuovo di Padova (1873, pag. l50) parlando degli effetti rivoluzionarii suscitati dal Modena, ricordava:
 «Da un accento, da un gesto,da un grido, scoteva le più torpide platee, e parea l’accento,il grido d’Italia,che cominciava a fremere il convulso martellar dei Vespri futuri…La polizia allibiva».
E Antonio Ghislanzoni nel Libro serio:
«Bello nella Zaira, come più tardi lo fu il Salvini suo discepolo e imitatore; commoventissimo nei Due sergenti; nobile e arguto nella Calunnia; straziante nel Giocatore, atrocemente vero nel Luigi XI. È però d’uopo convenire che in nessun dramma o tragedia ebbe il Modena più largo campo a rivelarsi come nel Saul dell’Alfieri. Gli spettatori, seguendo sulla scena le movenze di quel biblico re, udendo la feroce parola di quell’ipocrita tiranno, comprendevano che l’artista, riproducendo con tanta enfasi di verità il personaggio, voleva infliggere un’onta a tutt’i despoti della terra e votarli all’esecrazione pubblica. L’attore repubblicano, trascinando sulle scene il paludamento regale imporporato di sangue, ruggiva l’anatema alle monarchie e mirava a scuotere i troni. Rimarranno eternamente memorabili in chi ha udito il Saul del Modena, le pause terribili ond’egli interrompeva il verso alfieriano:
Traggasi a morte... a criniti morte.... e lunga.
Era il tigre che vuol gioire dell’agonia e abbeverarsi di sangue vivo».
I due prediletti allievi di Gustavo Modena, Tommaso Salvini e Ernesto Rossi, benché ottimi italiani, non seguirono il maestro nell’ardente scopo politico, che dava all’arte sua un fascino di più. Ma vollero rappresentare anch’essi alcune parti del maestro: ad esempio nel Luigi XI del Delavigne, mediocre dramma, come arte, falso come storia, che non meritava le fortune che ebbe presso attori italiani, successi, come il Novelli, ai magni interpreti.
Adelaide Ristori, in una delle sue villeggiature sul lago di Como, nella Villa Maria, mi diceva una sera parlandomi di Eleonora Duse: «Vorrei vederla nelle grandi parti che noi abbiamo interpretato, come nella Maria Stuarda dello Schiller». E non potei far a meno di rispondere alla grande attrice e grande dame, che aveva la conversazione seria ed elevata: «Ma non è segno forse di rispetto se Eleonora Duse si astiene dal rappresentare i personaggi tragici resi famosi da una Rachel, da una Wolter, da una Ristori?» Eleonora Duse è l’espressione più alta della nevrosi moderna, che comincia dove finisce il teatro di grande stile; nel quale occorrevano anche maestose persone in vesti regali, voci auguste, che (come d’una voce diceva Byron nel Don Juan) sembrano discendere da un trono. E Adelaide Ristori, e Tommaso Salvini ed Ernesto Rossi, che udimmo, vantavano persone magnifiche, bellezza, maestosi larghi gesti dominatori, e armoniose favelle che rapivan le folle.
Tommaso Salvini ebbe sì, a emulo, Ernesto Rossi. Spesso si agitarono discussioni sui loro meriti, come per la Rachel e per la Ristori a Parigi. Per misurare la loro diversa grandezza, bisogna considerarli in due capolavori dello Shakespeare, che furono i loro principali cavalli di battaglie... anche lucrative: Otello e Amleto.I due campioni non avevano, in quei due capolavori, da sostenere il terribile confronto del sommo loro maestro. Il Modena, infatti, quantunque fosse il più shakespeariano degli attori perché universale e profondo come un oceano, non trattò il poeta «dalle mille anime» ch’egli poteva interpretare meglio di tutti. Dobbiamo al Salvini e al Rossi la diffusa conoscenza che il pubblico fece del Moro geloso e del funereo Principe di Danimarca.
La rappresentazione, che ne davano i due concorrenti all’ardua interpretazione, era diversa; e proveniva dai loro diversi temperamenti artistici.
Ma perché il Modena non rappresentò mai quelle due tragedie? Il Modena stesso lo confessò a Ernesto Rossi, che lo riferisce nelle Lettere autobiografiche (pag. 85). Il perché è... comico. Il sommo attore voleva rappresentare, una buona volta, Otello al teatro Re di Milano, che passava per il primo d’Italia. Ma, subito alla prima scena, quando Rodrigo grida dalla strada alla casa di Brabanzio: «Oh! Brabanzio! Olà, messer Brabanzio! Badate alla casa, ai ladri !» il pubblico – l’orbetto, come il Modena lo chiamava con una parola rimasta proverbiale, si mise a rumoreggiare offeso, e a dire: «Ma questa non è una tragedia, è una farsa!» Gustavo Modena dovette allora far calare il sipario; e da allora, addio Otello, addio Shakespeare! I suoi allievi furono più fortunati. Hanno trovato i tempi... più evoluti.
Otello è leale, è aperto, buono, valoroso. Così lo chiama il Senato della repubblica di Venezia. Egli s’innamora di Desdemona, la dolce veneziana, perch’ella sentì pietà delle sue sventure: per lui, ella è il più prezioso tesoro, ed è ben umano ch’egli ne sia geloso lino al punto da commettere un delitto. Egli la ama come sposo fido, non come amante lascivo. E non è, no, bestiale, come lo definisce lo Schlegel. Nemmeno si «vendica» quando Jago lo convince ch’ella lo tradisce con Cassio: egli vuol ucciderle il corpo peccatore, non l’anima; tanto è vero, che prima di soffocarla, la fa pregare, perché non vuol ucciderle l’anima. «No: il cielo me ne preservi!... non vorrei uccidere l’anima vostra». Egli è giusto anche nel delitto e uccide sé dopo averlo compiuto, Nemesi anche di sé stesso.
Ebbene, Tommaso Salvini intese perfettamente quel carattere. Come lo Shakespeare, non esagerava mai, serbando la giusta misura anche nelle tempeste più tragiche. La «umanità» del capolavoro inglese era resa dall’attore italiano. Egli comprese che Otello non è un eroe alfieriano; un capitano di ferro d’un solo pezzo; s’accorse che il carattere di Otello, benché coerente, ha cento echi, cento tempeste, che non si sollevano a casaccio, ma per una forza ben giustificata. Tommaso Salvini teneva quasi sempre in petto la sua voce affascinante e ne adoperava con arte varia i chiaroscuri, per esprimere le oscillazioni della passione d’Otello.
Nei due primi atti, il Salvini era semplice, piano; e non è forse semplice e piano in quegli atti preparatorii il dramma? Quando Otello ha spenta Desdemona ed ha alfine la prova da Emilia ch’ella è innocente, trafigge il vipereo Jago per punirlo e piange a dirotto su Desdemona l’atroce inganno subito, e si accascia come leone moribondo sotto l’angoscia suprema, ma per risorgere ben tosto con uno scatto terribile e punire anco sé stesso sgozzandosi. Ebbene il Salvini passava da quella quiete simulata al furore mortale con una verità da mettere i brividi.
Ernesto Rossi faceva di Otello un amante lascivo, un selvaggio, un bruto muggente, sempre sul punto di sbranare la sua vittima. Di Otello, l’attore livornese faceva un tipo arbitrario, allontanandosi dalle stesse linee psicologiche tracciate con mano ferma dal tragedo inglese. Il Salvini si atteneva fedelmente allo Shakespeare; perciò tuonava meno, e commoveva di più. Un sublime grido emetteva Ernesto Rossi, grido che il Salvini non aveva; ed era quel parve! finale, che Otello ripete quando Jago, per discolparsi, affermava: «Nulla ho detto ch’egli stesso non l’abbia trovato giusto e vero; io dissi quello che vero mi parve!...» Il Rossi, in quel punto, con quel grido ci gelava il sangue. Tommaso Salvini restava muto.
Pur troppo, anche Tommaso Salvini per le esigenze teatrali, operava larghi tagli chirurgici nel dramma sublime. Egli chiudeva, per esempio, il terzo atto alla terza scena. Saltava tutta la seguente, ch’è rilevantissima per la psicologia di Desdemona, e per lo smarrito fazzoletto al quale il Moro attribuisce magici poteri, perché dono d’una maga egiziana. Desdemona è desolata per quello smarrimento. Nella sua ingenuità, ella dice persino alla fida cameriera Emilia: I had rather have lost my purse-Full of crusadoes («Vorrei piuttosto aver perduta la mia borsa piena di crocioni [monete]»): il Rusconi traduce: «Credimi, è una perdita che mi addolora molto»). Nell’Amleto, invece, Tommaso Salvini restava al disotto di Ernesto Rossi; eppure ambidue peccavano nell’interpretazione fondamentale d’Amleto, intorno al quale dicono che lo Shakespeare lavorasse per quindici anni, egli così fecondo. Il protagonista è tipo profondamente nordico. La tragedia che lo circonda e che si svolge da lui stesso e in sé stesso, è funerea e gelida come un’isola del Baltico. Guai ad alitarle su un soffio meridionale! I due attori italiani si riscaldano troppo: sono
troppo meridionali fino al punto da venire in scena coi capelli neri, invece che biondi. Tre o quattro momenti indimenticabili aveva il Salvini. Quando il fantasma dell’assassinato padre d’Amleto appare nella notte, il Salvini-Amleto, per lo spavento, non poteva proferire parola: si curvava, si metteva in ginocchio tremante, allibiva come chi è soggiogato da un fascino spettrale. Il padre rivela al figlio il più terribile segreto: l’assassinio consumato su di lui dal proprio fratello e dalla propria moglie. Il Salvini ascoltava immoto, quasi impietrito, quella orribile rivelazione d’oltretomba, e, a poco a poco, il respiro gli diventava affannoso, l’angoscia gli strappava quasi rantoli d’agonia. Ernesto Rossi (quanti lo ricordano!...), levando alto le braccia quasi in segno di supremo trionfo, emetteva il grido, rimasto proverbiale: o profetica anima mia!... Tommaso Salvini, invece, pronunciava la stessa frase sottovoce, come chi ricorda orrida cosa sospettata altra volta in segreto, e come, anco, chi ha davanti uno spettro, che gli gela il sangue. Il Salvini qui era più vero del Rossi. Infatti, la situazione è dominata dal fantasma, e Amleto, atterrito, quasi sparisce. Quando Amleto, con la spada in pugno, entra, non visto, nella camera dello zio assassino per trafiggerlo, si arresta: come è ben naturale nella irresoluta sua indole, si pente di porre in azione una cosa che il suo pensiero aveva concepita. E, in quella scena, il Salvini era d una verità mirabile. Ernesto Rossi esprimeva però la simulata demenza d’Amleto in guisa da metter quasi paura, facendone risaltare le cupe ombre nei lucidi intervalli del principe danese.
Il Salvini, invece, non si mostrava mai folle: restava sempre uno scettico e tutt’al più uno spirito balzano al quale piacciono gli scherzi. La grandezza tragica di Amleto consiste in quella demenza simulata, la quale fece dire allo Chateaubriand che l’Amleto è la tragédie des aliénés; e il farla quasi dimenticare era un errore.
Un altro dramma, nel quale Tommaso Salvini strappava applausi indicibili, era Il figlio delle Selve, che più esattamente si doveva tradurre Il figlio della solitudine. Ne è autore un drammaturgo di Cracovia, che infondeva al dramma un carattere lirico come i nostri Cossa e Marenco, e che trattò anche soggetti italiani (Il Gladiatore di Ravenna, ecc.): Francesco Giuseppe di Münch Bellinghausen, noto sotto il pseudonimo di Federico Halm, che fu fatto conoscere all’Italia dal Salvini.
Tommaso Salvini infuse nella Morte civile una vita che lo sventurato precursore di Paolo Ferrari – Paolo Giacomenti – forse non isperava col doloroso suo dramma. Quando la Morte civile fu rappresentata all’Odèon di Parigi, Emilio Zola ammirò la semplicità di quel dramma, che procede per la ferrea necessità delle cose, come da un fato. Il grande naturalista lo ammirava contro il troppo famoso Sarcey, che sulla Morte civile stampò alquante sciocchezzine. Ma perché oggi nessuno ricorda un altro dramma, superiore, dello stesso fecondissimo Giacometti, Sofocle, che il Salvini rappresentava con commovente semplicità e maestà? Quando Sofocle, dopo aver perdonato al figlio malvagio, muore intonando i canti eroici dell’Ellade, ed esclama:
«l’anima canta», Tommaso Salvini s’innalzava a sfera non terrena.
L’ultima volta che vidi Tommaso Salvini fu nella festa forse più cara al suo cuore: all’inaugurazione del monumento a Gustavo Modena, a Venezia. All’immortale veneziano Venezia eresse un vigoroso monumento nel bronzo eterno fra le piante, nei giardini pubblici, accanto al palazzo dell’esposizione di Belle Arti: e Tommaso Salvini, non ostante fosse ottantenne, si mostrava vigoroso e alacre ancora: era raggiante in volto, felice. Egli vedeva reso perenne omaggio al padre dell’arte sua, al quale doveva tanto. Ma pensava egli alle continue burrasche della vita vagabonda e in miseria, alle persecuzioni della polizia e della fame patita da Gustavo Modena, che profugo a Bruxelles, fu costretto a vendere con l’intrepida moglie maccheroni per non morire, laddove egli Tommaso Salvini avea avuta piana la vita, e avea raggiunti tutti gli agi. tutti gli onori e l’ammirazione di due mondi e una vecchiezza così verde, così serena?... Dopo l’inaugurazione, si ritornò col patriota Pastro e con altri a San Marco, sul vaporino, solcando la laguna cerulea in una gloria di colori e di luce; e Tommaso Salvini conversava animato: e pareva che dovesse accingersi ad altre vittorie in quell’arte, che egli condusse nel mondo, affermando una volta di più, con tanto fortunato splendore, il genio italiano primeggiante anche sulle scene.