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 1916  gennaio 09 Domenica calendario

Corriere. Capo d’anno e gli auguri dei belligeranti. - Un telegramma del Re. - Il referendum teatrale. - Re Pietro di Serbia e l’Ode di D’Annunzio. - Paolo Boselli cavaliere dell’Annunziata. - L’ecclissi degli avvisi. - Il famoso Dottor Cook per la pace

Il capo d’anno è sorpassato; e corrono su pei giornali gli auguri espressivi che i capi di Stato hanno manifestati ai loro popoli, ai loro eserciti. Nei paesi dove si combatte – e dove è che non si combatte oramai? – tutti hanno augurata, hanno invocata per l’anno nuovo «la vittoria». Il Kaiser – che è a Berlino malato – ha invocata la «vittoria definitiva». Un riconoscimento più esplicito dei risultati, diremo dunque, «non definitivi» della gran guerra che la Germania sostiene da dieciotto mesi, non si poteva pretendere.
Lo Czar di Russia è stato molto esplicito, ed anche coerente. «State certi – ha detto ai suoi soldati – che come dissi al principio della guerra – non concluderemo la pace se non quando avremo scacciato dal nostro territorio fino all’ultimo nemico». Infatti Nicola II, il 3 agosto, disse solennemente, in Pietrogrado, ai suoi soldati: «Dichiaro qui solennemente che non farò la pace prima che l’ultimo soldato nemico non sia uscito dal nostro territorio» – e allora, se non erro, soldati nemici sul territorio russo non ve n’erano affatto.
Se è vero che la Germania – malgrado tutte le smentite dei Wolf Bureau e delle Norddeutsche – ha realmente bisogno di pace, non ha che da condursi in guisa da ritirare dal territorio russo i corpi d’armata tedeschi che vi stanno fortemente trincerati. Quanto all’Austria pare – se le notizie che vengono specialmente dalla Bucovina sono esatte – pare che i russi pensino essi, ora, a farle ritirare rapidamente i suoi, tanto da lasciar credere che, almeno da quella parte, si prepari un nuovo rovescio... della medaglia!...
In realtà, tutti gli auguri corsi da un capo all’altro d’Europa, da un capo all’altro del mondo, dicono ciò che dai fatti stessi della lunga guerra risulta: tutti sono alla ricerca della vittoria dalla quale soltanto dovrà uscire la pace!...
Gli auguri di Re Vittorio, naturalmente, sono commentati vivamente, e simpaticamente, fra noi. La nostra guerra, se è certamente la più dura, è anche – come sempre ho detto – la più logica, la più legittima ed anche la più fortunata. Non abbiamo avuto rovesci di medaglia. Ciò che il valorosissimo esercito nostro ha potuto fare, non è andato soggetto, in nessun punto, alle ingrate revisioni del nemico. Il generalissimo Cadorna, ringraziando un benemerito cittadino per una pelliccia mandatagli in dono, ed accettando «il vello», quale «auspicio della conquista del vello d’oro» aggiungeva con arguta sincerità:
«Se non che al tempo di Giasone non avevano ancora inventato i reticolati, né altri infernali ordegni, e si poteva camminare a passo più spedito».
Il Re, ben ha risposto – nel telegramma al generale Cadorna – alla spontanea e grandiosa dimostrazione – indirizzi, telegrammi, cartoline – fattagli da tutti gli italiani nel giorno stesso in cui, al Quartiere Generale, le deputazioni del Senato e della Camera presentavangli gl’indirizzi augurali:
«L’Esercito, che già da mesi, in ardui cimenti ha dato mirabile prova di ogni virtù, ne darà anche quante ne attende la Patria per i suoi destini. Sicuro di questa fede, ricambio il saluto gradito, col voto del cuore che la fortuna d’Italia coroni il valore dei cari soldati».
Parole alte e sincere, degne del principe che il Poeta della nostra guerra, D’Annunzio, saluta e dipinge in un giornale inglese, così:
«Giammai regnò Sovrano più perseverante e più sincero nel culto del dovere e che abbia compiuto con altrettanta tenacia il proprio dovere verso il suo popolo, verso se stesso e verso i suoi avi. Dopo lo scrupoloso adempimento della sua missione durante numerosi anni, il destino gli obbedì. Dopo lunghi anni di silenzio il destino, venendo a lui, lo ha trovato degno del suo compito».
«Il Re è sempre presso i suoi soldati. Alla fronte egli non è un Imperatore teatrale dei barbari: è un Re latino, semplice ed intrepido, che ha la stessa anima dei suoi soldati. Quando lo acclamiamo egli risponde: Viva l’Italia!».
E vari giornali hanno riferito che ad augùri di vittoria espressigli a voce, il Re semplice ed animoso ha risposto: «Non ritornerò al Quirinale che con la vittoria!...».
Questa è la fede con la quale gl’italiani, concordi, salutano gl’inizii dell’anno novello!...
I giornali – almeno da Emilio Girardin in poi – hanno sempre delle idee!... Un giornale teatrale di Milano ha avuto quella di aprire un referendum per «il teatro e la guerra». Marco Praga risponde che «si è già troppo abusato della guerra, sopra tutto sul teatro...». Innocenzo Cappa si dà alle previsioni. Egli prevede che «i popoli principali d’Europa rimarranno immutati, ognuno con i proprii sogni e con i suoi pregiudizii dell’ieri. Tutt’al più accadrà questo: i contendenti di ieri, idealisti e materialisti, religiosi ed atei, crederanno dispiegare la storia secondo questa o quella tesi e gli uni e gli altri metteranno nel discutere un fervore di reciproca calunnia più intenso, ed una esasperazione insolita».
Per conto mio, mi associo alla scettica filosofia arguta dell’amico Sabatino Lopez, che scrive:
«Non credo ai profeti. Lo svolgimento di questa guerra è tutto un seguito di profezie sbagliate. E perciò non credo nemmeno alle mie profezie».
Non facciamone, dunque; e avanti con fede !...
Il decano del Parlamento, Paolo Boselli, che nella votazione politica del 4 dicembre alla Camera, sintetizzò così felicemente la fede nazionale, nell’ordine del giorno che raccolse in un voto di concordia i nove decimi dei deputati, è stato insignito, a capo d’anno, del collare di cavaliere dell’Annunziata. Gli spettava, per lo meno, per ragioni di anzianità; siede nella Camera dal 1870, cioè, da quarantacinque anni; è stato ministro in tutti i più diversi dicasteri in tutte le più svariate combinazioni; è l’anima dell’amministrazione benefica dell’Ordine Mauriziano; presiede da anni alla Dante Alighieri con una vivezza di sentimento italiano che in ogni deliberazione, in ogni iniziativa si riafferma; presiede il Comitato Nazionale per la Storia del Risorgimento; presiede.... o cosa mai non presiede da oltre mezzo secolo in Torino, in Piemonte, in Liguria, a Roma, in tutta Italia Paolo Boselli, che nel prossimo giugno – se gli annuari non mentono – compirà i suoi settantotto anni?...
Da quando morì Biancheri, egli è il segretario generale di Sua Maestà per gli ordini cavallereschi Mauriziano e della Corona d’Italia – ministro della vanità umana, come diceva col suo amabile scetticismo intellettuale Cesare Correnti che coprì anch’egli, grazie alla Sinistra, quell’alta carica. Dopo avere cosparsi di tante croci e commende gl’italici petti, doveva ben toccare al gran segretario Boselli l’unica decorazione che gli mancava – il Collare dell’Annunziata – meritata dalla sua devozione all’Italia, al Sovrano, da mezzo secolo serviti con una instancabile versatilità, dagli aspetti ancora giovanili!.,.
Varie pagine di questo numero sono dedicate alla tragica guerra di Serbia. La fine momentanea, di un esercito, di un popolo; la ecclissi di un regno, che fu pretesto alla gran guerra; la triplice invasione austro- tedesco-bulgara; la ritirata dei sopraffatti difensori in Albania – dove l’Italia li accoglie, li soccorre, li riordina – e in Grecia, dove non sanno se siano tra nemici o tra fratelli – presentano varii aspetti drammatici, impressionanti, di un quadro commovente, non frequente nella storia. E in questo numero tale storia è documentata dal vero!...
Dov’è la Serbia ora, dopo la tragica fine che le nostre pagine illustrano?...
Re Pietro è a Salonicco, nel campo degli alleati francesi ed inglesi. Egli va dicendo – se dicono il vero i giornali – che Dio solo può oramai salvare la Serbia. Ma Dio dice: «aiutati, che ti aiuto!». E Re Pietro sta raccogliendo, ora, a cento, a duecento alla volta, i superstiti di quel suo eroico esercito, che può mettere ancora insieme, validi e fidenti, centomila uomini almeno, gloriosi di
avere impedito per quattordici mesi, da soli, che l’Austria compisse, da sola, quella meditata opera di inesorabile sopraffazione, che poscia per ben tre eserciti riuniti – il tedesco, l’austriaco, il bulgaro – non poteva più essere una fatica!...
Re Pietro vedrà re Costantino di Grecia? Se l’incontro avverrà, chi dei due parlerà più fieramente? Il Re sfortunato, che, come Francesco I dopo la battaglia di Pavia, può dire di aver tutto perduto fuor che l’onore – o il Re che persistendo in una politica neutrale inconciliabile con la situazione immutabile, ha la guerra in casa ugualmente, e non ha la fiducia di nessuno?... E nell’ora della pace, chi lo ricambierà ili gratitudine, di fiducia?... Si può dire della Grecia che per vivere ha perduta la ragione di vivere. I serbi invece credono, e non a torto, che la Serbia rivivrà!... È questa la fede del suo Re; è questa la fede che vibra nell’Ode che Gabriele d’Annunzio le ha dedicata, e che i prigionieri serbi concentrati nel castello di Gavi in Liguria, hanno tradotto nel loro idioma, quale canto di un poeta amico.
Essi hanno scritto al Poeta una lettera delicata per ringraziarlo, ed hanno aggiunta alla sua ode una strofa riepilogativa veramente caratteristica:
Questo canto intessè un latino
per coronarne gli eroici Serbi,
A noi resta di sdebitarci.
Non s’udì ancora di Serbo debitore:
chi getta sul Serbo una pietra
due ne trova dal Serbo,
chi un pane getta sul Serbo
due focacce trova da lui.
Perciò, fratelli di stirpe serba,
unitevi alla voce del guslar:
Iddio conservi il Poeta latino
e ne diffonda la gloria nel Mondo;
il bosco l’adorni d’alloro
finché vi saran canti ed eroi.
Una nuova guerra ha portato il nuovo anno – la guerra «agli avvisi». Dal 1° gennaio l’aspetto arlecchinesco, caratteristico, pittorico delle pareti e dei tabelloni destinati nelle vie alle réclames si è dileguato. Fogli uguali di carta di un evanescente colore violaceo uniforme e malinconico, danno ai muri e ai tabelloni un’espressione funeraria. Non è diverso il colore onde sono parate le chiese nel venerdì santo!... Gli avvisi sono morti, o, per lo meno, temporaneamente sepolti, ed il merito è tutto della burocrazia fiscale italiana.
Non si tratta dei pochi centesimi di più che il fisco è venuto a domandare con le accresciute tasse di bollo. Avesse domandato anche di più, ma avesse saputo domandarlo, non vi sarebbero state contestazioni. Il contribuente italiano è dei più obbedienti, pazienti, rassegnati del mondo. Ma tutte quelle complicazioni di misurazioni, di calcoli, di denunzie hanno resa non solo impossibile, ma odiosamente molesta la maggiorazione dell’imposta, che, ridotta ad un puro e semplice aumento di bollo, non avrebbe fatto protestare nessuno!...
Speriamo che il ministro Daneo provveda radicalmente. È più, quasi, nell’interesse suo, che di coloro che debbono pagare. Mentre, nella considerazione economica generale, non è chi non veda quanto danno arreca ad ogni sviluppo del commercio, alle industrie grafiche – già così angustiate – a tante e varie classi di produttori e di lavoratori questa crisi improvvisa, e pur prevedibile, della réclame, in un tempo, in condizioni di vita, in cui la réclame è elemento indispensabile della universale operosità e della pubblica ricchezza.
O dove vivono i fiscali dei ministeri, quando meditano la eseguibilità di certe leggi? Pagare non duole agl’italiani – che da un anno, oramai, fanno fronte con lieto animo, generosa borsa e salda fede, ai molti e nuovi sagrifici. Essere infastiditi, molestati, loro duole!... E la burocrazia pare non sappia fare di meglio. Anche l’affare dei bolli preventivi sulle cartoline-vaglia, sui vaglia, sulle fatture ha creato veri gineprai e non poche ingiustizie.
Vi ho detto nel Corriere scorso della poco prospera sorte toccata in Europa alla missione del milionario automobilista Ford, mossosi dall’America per venire in Europa, egli e certi suoi compagni, che non erano nemmeno d’accordo fra loro, a fare propaganda di pace. Ora balza fuori – invidioso dei successi di Ford – una nostra vecchia conoscenza, Cook, il famoso Cook che volle disputare al capitano Peary l’onore di avere raggiunto il polo Nord. Vi ricordate?... Il mondo fu diviso, per un momento, in pearisti e cookisti. Ora, il dottor Cook non viene per dividerci, ma, probabilmente, per unirci tutti in una risata unica, all’annunzio che egli dà «di aver trovato un mezzo sicuro per pacificare l’Europa e che intende sottoporre il suo piano ad un Congresso straordinario all’Aja!...».
L’Aja?... Penso che, quando la pace verrà, bisognerà decidersi ad erigerle un tempio in località che abbia un nome più propizio!...
 
Nota: Nel Corriere della settimana scorsa dissi, per una svista, che il compianto prof. Malachia De Cristoforis fu nominato senatore da Crispi. L’ing. Nino De Cristoforis, figlio del defunto, giustamente mi osserva che suo padre fu fatto senatore essendo primo ministro Alessandro Fortis – il 30 dicembre 1905.
 
Il 5 gennaio