L’Illustrazione Italiana, 9 gennaio 1916
Per il prestito nazionale. Quello che si dà alla Patria si riceverà poi centuplicato
Il nuovo Prestito Nazionale di cui si aprono domani le sottoscrizioni ai volonterosi risparmiatori e patrioti italiani costituisce un segno non solo della fiorente ricchezza della nazione e della potenza economica dello Stato, ma anche della sicura e reciproca fiducia che congiunge i cittadini all’Erario. Le condizioni a cui il prestito viene emesso sono già note. Niente promesse sbalorditive, niente implorazioni supplichevoli, niente lusinghe all’ingordigia, niente pizzichi di commozione e sopratutto niente fastosità di apparato né artifici di réclame per abbagliare il pubblico. Questi mezzi sono stati impiegati altrove, in altri Stati che si atteggiavano a cattedre di civiltà, a invidiabili modelli di organizzazione e di capacità finanziaria, dove persino l’infanzia è stata addestrata all’ufficio di accattonaggio fiscale. Lo Stato Italiano non ne ha bisogno e rifugge dall’adoperarli. L’Italia la quale ha già impartito all’Europa una inattesa lezione di energia militare e industriale ne sta ora impartendo un’altra di serietà civile e finanziaria. Per la quale tutti i buoni cittadini hanno il dovere e il diritto di far da maestri.
L’Italia intende la fede nella patria come una religione austera, che non può né deve acconciarsi, neppure per il raggiungimento dei suoi fini, a solleticare, ai due estremi, la grettezza usuraia o la sentimentalità tremula e pietosa. L’Italia vittoriosa nelle sue armi, salda nel suo credito, certa del patriottismo dei suoi figli, sa di poterne ottenere quello che oggi il destino richiede. Può bensì offrire un giusto e anche lauto compenso poiché ogni impresa finanziaria ha il suo prezzo e ogni affare il suo interesse, ma per il resto, per incitare le schiere dei sottoscrittori non ha che da muoverne semplicemente la innata, la nobile generosità.
Tra i grandi Stati combattenti che hanno dovuto ricorrere a prestiti per sostenere le spese di guerra, è proprio 1’Italia, sia detto per nostro legittimo vanto, che può assicurarsi i patti meno gravosi, che può con maggiore agevolezza avere il denaro dalla nazione. E se questo, come si disse in principio, è indice della consistenza del Tesoro pubblico e del benessere economico del paese, è altresì validissima ragione persuasiva per tutti coloro che amano riporre i loro denari in mani sicure.
La Francia ha emesso il suo ultimo vistoso prestito al 5 per cento per soli franchi 87.50 invece di 100. L’Italia ha l’orgoglio di emetterlo a lire 97.50.
Ma quante facilitazioni e quale fruttuoso collocamento per il saggio capitalista, per l’uomo previdente che può in piccola o larga misura versare il suo peculio in un simile investimento esente da ogni ansia e da ogni rischio!
Il prestito italiano frutta nominalmente il 5 per cento netto da ogni imposta e tassa presente e futura, ma in realtà, poiché viene dato a lire 97.50, rende effettivamente il 5.l3 per cento, e tenuto conto del premio di rimborso il 5.20 per cento. Il rendimento è adunque dell’uno e mezzo per cento superiore a quello medio dei valori di Stato italiani nell’ultimo decennio, è un interesse che supera altresì quello di molti valori industriali, i quali sono per natura loro aleatori, è insomma un interesse ingente, proficuo, sicuro, quale i periodi di pace non conoscono e probabilmente non conosceranno neppure in avvenire.
Le obbligazioni del nuovo Prestito, equiparate alla rendita sono garantite dal credito dell’intera nazione, valgono per depositi, doti, impieghi per minorenni, hanno diritto ad anticipazioni sino al 95 per cento del loro valore e verranno riscattate alla pari fra il 1926 e il 1941.
Le somme sottoscritte si possono pagare così per intero, ritirando immediatamente i titoli definitivi, come con versamenti rateali opportunamente scalati. E i pagamenti si possono fare anche in Buoni del Tesoro ordinari, accettati alla pari, e per metà anche in Buoni del Tesoro quinquennali.
È riservato il beneficio degli interessi gratuiti dal 1° gennaio a chi sottoscriverà fra il 10 e il 25 gennaio.
E molti altri vantaggi e benefici si potrebbero ancora enumerare e illustrare se questa fosse la sede adatta per dissertazioni tecniche, ma è invece qui dove se ne deve rilevare uno che non ha carattere finanziario, ma che è così cospicuo, così immenso da valere e da sopravanzare di gran lunga tutti gli altri sommati insieme.
Si parla del 5, del 5,13, del 5,20 per cento, ed è già invero questo un profitto considerevole, ma fosse anche del 6 o del 10 sarebbe tuttavia piccola cosa in confronto a quell’interesse incommensurabile, a quel mille per uno che l’Italia corrisponde già col suo nuovo prestigio di nazione guerriera e corrisponderà con la sua possanza e la sua gloria di nazione cavalleresca e vittoriosa a tutti quanti le hanno imprestato il loro denaro. Non al 5,20 per cento ogni sottoscrittore metterà i suoi capitali a frutto in questo prestito, ma a un interesse cento, mille volte più elevato, a un interesse inaudito, quale nessun prestito, nessun impiego di denaro ha mai fornito, a quell’ interesse che comprende i beni supremi dell’esistenza, i beni più eccelsi dell’oro e della ricchezza, i beni che sono la stessa fonte della ricchezza, la stessa ragione della vita; la libertà e la tranquillità per sé, l’indipendenza e l’avvenire per la patria.
Guai a chi dubita, guai a chi esita, guai a chi teme di veder scemare o dileguare in quest’ora i suoi averi per il fatto di affidarli alla Patria, allo Stato, e li rinchiude gelosamente nella cassaforte come se questa fosse un talismano tutelare! Guai a chi si rinserra e si isola nel cerchio della sua egoistica individualità, proprio adesso in cui l’individuo da solo non ha ragione d’essere, e il patrimonio individuale non ha difesa, in cui siamo tornati a quella condizione primordiale in cui l’uomo fuori dal suo gruppo non era più che un reietto o un animale da preda, proprio adesso in cui la salvezza e la vittoria sono riposte nella fusione e nell’identificazione dell’individuo e della sua fortuna con la grande anima e la fortuna della Patria.
Colui che pertanto così si trattiene e che temendo rifiuta mostra di non comprendere né il suo dovere di cittadino né la condizione che conferisce il valore al denaro. Egli non vuole associare la sorte del suo patrimonio alle sorti del patrimonio della nazione e non discerne che le due sorti non sono mai state più di ora indissolubilmente legate.
Illuso o ignaro. La sua cautela è cecità. Egli ha della moneta, del contante un concetto mistico, le attribuisce un valore in sé, assoluto, mentre non ne ha alcuno e lo riceve solo di riflesso dalla potenza economica e dal credito dello Stato. La ricchezza odierna è come i pianeti; non isfavilla di luce propria, ma intanto risplende di valore in quanto lo riceve dallo Stato. Che questo si offuschi, anch’essa si spegne.
Qualsiasi custodia egli avesse escogitato, tenesse pure il suo tesoro avvolto sul petto, a nulla gli gioverebbe, lo vedrebbe pur sempre scemare a misura che dovesse illanguidirsi l’irradiazione di valore che gli vien dallo Stato.
Né gioverebbe aver convertito la ricchezza in terre o in oro se il nemico dovesse calpestare il suolo della Patria. Si mediti su quello che è avvenuto in Belgio, in Serbia, nei dipartimenti invasi della Francia. Si rifletta che ogni lira rifiutata alla Patria per taccagneria, per l’esosa ansia che non sia più restituita, togliendo un fattore di resistenza, aumenta la possibilità di perdere tutto, mentre ogni lira offerta aumenta la forza vittoriosa e insieme la garanzia di tutto conservare.
Fino dai tempi remoti, dall’ inizio della guerra del Peloponneso, Pericle, un uomo politico dall’ampia veduta, così ammoniva gli Ateniesi che lamentavano le ricchezze assorbite, i palagi e i campi guasti dalla guerra, ed erano restii ad altri sacrifici: «Voi dovreste, o Ateniesi, tenere queste cose in quella stima che va tenuto un lieve ornamento di città doviziosa, avendo per fermo che nel conservare, da quei valorosi che siete, la libertà, assai facilmente tutte quante queste cose ricupererete; ma se quella vi sarà tolta, tutto, come dee accadere, tutto andrà in perdizione». Ed incalzava ancora: «Né affligger vi deve la perdita dei beni e dei campi, sì pur quella degli uomini, perché gli uomini dànno i beni, non i beni gli uomini».
Oggi questa elementare sapienza è infinitamente più vera di allora. Poiché oggi tanto l’efficacia del denaro in guerra affermata dallo stesso Pericle, quanto l’enfatica espressione di Napoleone che la guerra è denaro, denaro e ancora denaro, è una pallida retorica di fronte alla formidabile realtà.
La guerra odierna non è più denaro come era fino a Napoleone, come era ancora fino al’70, o meglio non è soltanto denaro, è assai più e infinitamente di più, è tutta la ricchezza, sia in forma di moneta, sia in ogni altra forma, tutta la ricchezza, tutto il credito, tutte le risorse economiche, produttive, agricole vitali di un paese contro tutta la ricchezza e tutte le risorse del paese nemico.
E il fatto per l’enormità che ha assunto ha persino cambiato di natura. Dianzi la guerra era un’avida struggitrice del denaro, era una spesa folle, un consumo sterminato in pura perdita. Adesso non è così. Appunto perché tutto richiede e tutto assorbe, appunto perché nulla lascia di immutato e tutto ciò che ha valore vi si impiega, appunto perché la sua funzione è così inconcepibilmente ingrandita, è altresì mutata, è diventata qualcosa di somigliante a quella della massaia che intride la farina, dell’aratro che rivolge la zolla. Anche la guerra rimescola e intride la ricchezza, e tanto più la sua azione sarà efficace e rimpasto sarà tanto più fecondo e animato di fermento quanto più essa sarà stata profonda.
Nella guerra del passato era ancora possibile, sebbene da ignavi, per chi non combatteva restare in disparte e tenere alcunché in serbo: la guerra era circoscritta in un territorio, in una fazione, in una schiera designata, e di questa era l’ufficio provvederne i mezzi; nella guerra presente ciò non è più, è guerra di tutti e di tutto contro tutti e contro tutto, e un’energia sottratta, una piccola somma in meno possono rappresentare una debolezza fatale, avere un’influenza sulla bilancia decisiva.
Chi si apparta diserta e si condanna in anticipo, e ciò che non si dà con la radiosa fede di riceverlo centuplicato, o sarà tolto o diventerà sterile.