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 1916  gennaio 09 Domenica calendario

Esame di coscienza di un letterato

Preceduto da una dichiarazione di G. De Robertis e a cura anche di L. Ambrosini. riappare in un volume che i tempi procellosi non devono sommergere, l’Esame di coscienza di un letterato di Renato Serra (Milano, Treves, L. 2). È seguito dalle ultime lettere scritte alla mamma e agli amici più cari dal campo.
Il De Robertis nella dichiarazione non solo definisce positivamente e negativamente la natura morale e spirituale di Renato Serra, ciò che fu e ciò che non fu, ma anche dichiara lucidamente, però snodandolo avanti ai nostri occhi, che vincolo di affinità istintiva ed elettiva lo legasse al letterato morto in guerra e quanto avesse fatto per strappargli questo Esame di coscienza. Sul Serra dà poi, in preambolo alle lettere, alcune succinte ma significative notizie biografiche Luigi Ambrosini.
Esame nato, sentito, respirato, espresso entro l’atmosfera della guerra. Una reazione mentale che ha termine, epilogo con la più diretta realistica e fisica azione personale. In questo contrasto, in questo mutamento – sia pur lieve e per molti insensibile – che è nelle pagine dell’Esame, si delinea una vera, intima tragedia umana.
Renato Serra afferma prima che la guerra non lo tocca, non lo riguarda, che non cambia nulla nel mondo: neanche la letteratura. In Francia, le ballate guerresche di Paul Fort – fredde e meccaniche – non valgono quelle deliziose di altri anni meno rossi e Gabriele d’Annunzio è sempre eguale a sé stesso. E, su per giù, gli altri sono rimasti tali e quali, in fondo: né meglio né peggio. La morte sul campo di battaglia non ha ingrandito Péguy né aumentata la sua poesia e se Rolland o altri hanno qualche merito, questo risale o, meglio, rifluisce a scaturigini che non sono colorate di sangue. Sono le prove e le audacie di una letteratura che era l’anticipazione di un avvenire eroico.
La guerra ora, oggi, non cambia i valori artistici, non li ricrea o ne crea a nuovo; ha rivelato solo dei soldati e non degli scrittori. Così imagina e dice Renato Serra. Forse, perciò la sua coscienza lo indusse a spogliarsi sempre più, da pagina a pagina, di ogni letteratura, e il suo fato inesorabilmente lo sospinge a essere un uomo compiuto, che nella morte rintracciò una compiutezza assoluta di soldato, mentre ciò che di lui resta sono le sensazioni, le intelligenze, le comprensioni, i giudizi di un letterato incompiuto che in alcune pagine – anche nelle più alte dell’Esame – e un artista meraviglioso. Di Péguv è epigraficamente scritto in questo Esame: «la guerra l’ha fermato, l’ha coricato sul suolo del suo paese, calmo, fermo, superiore a tutti i nostri movimenti d’ammirazione inutile come i rincrescimenti e le resipiscenze». Parole che sono per noi un mònito continuo quando ci accingiamo a ricostituire, reintegrare in armonica unità la vita, la morte e l’opera di Renato Serra. Probabilmente, se, dalla regione degli spiriti, avesse facoltà di rivolgerci qualche consiglio, sarebbe il seguente: – «badate, intendete, sentite come fui vivo in questo mio Esame e come sempre più dal mio corpo e dal mio spirito abbia tentato di gettar via ogni porpora o straccio di letteratura». – Sì, con questo sforzo non violento, sempre più facile e sicuro, Renato Serra s’era nell’Esame liberato a poco a poco dalla pena di dare su uomini, eventi e fatti, giudizi benevoli o malevoli, aspri e digrignanti o miti e indulgenti e raccolto ad assorbire i fiati, ad assaporare i frutti di una libertà spirituale forte e serena, anche se gli sfuggirà poi di mano, di anima, di penna e gli lascerà un po’di amaro in bocca. Non importa. Intorno a questa, sia pure fuggitiva conquista interiore, e al desiderio di divenire a tratti con l’erba, la luce, la polvere, il vento e la fine del giorno, un elemento naturale, Renato Serra in l’Esame si indugiò con pagine mirabili da mettere vicino a quelle in cui, senza profetare, ma per concludere che la guerra avrà liquidata una situazione che già esisteva, risponde all’angosciosa domanda: – «Che cosa è che cambierà su questa terra stanca, dopo che avrà bevuto il sangue di tanta strage?».
La risposta è la solita: nulla. È il luogo comune dell’Esame, però un luogo comune elevato a espressione d’arte e penetrato a profondo strato di sensazione, sincerissima nella sua calma melanconia.
L’Esame è un libro triste, nel suo amore sostanziale e nella sua ripugnanza estrinseca per la letteratura, nel bisogno, quasi morboso nell’autore, di sentirsi intorno qualcuno, avanti, a fianco, sulle proprie orme fra i compagni spirituali e nel non averne, non scoprirne che pochi e lontani e trovarli invece fra i soldati in riga, al reggimento entro il fumo ed il fuoco di quella guerra che egli considerò solo come un beneficio in sé stessa senza proporzioni e rapporti fra ciò che si perde e ciò che si guadagna.
È la guerra che in Renato Serra sostituisce la passione alla malinconia, che rompe intorno a lui una solitudine stoicamente sopportata per docilità ad una coscienza incapace di transigere, per un abito mentale intollerante di fare della letteratura una professione e per un gusto schivo, nauseato delle male o mediocri compagnie. Ciò non è scritto, ma si legge così chiaramente nell’Esame. Con la guerra si sovrappone in Renato Serra sempre più intensa la volontà di vivere, di ardere, magari consumare, tutta, in sé e per sé, una passione, senza più evitare le passioni degli altri. L’Italia anche se non fosse entrata con la sua guerra nazionale nella gran guerra del mondo, avrebbe potuto riparare l’errore, la viltà, l’assenza. Ma la nostra generazione? L’italiano d’oggi? Renato Serra intuì stupendamente che sarebbe stato un fallito nel proprio destino individuale. Perciò al luogo, alla linea dell’ Esame che propone: – «e non parliamo più della guerra» – segue immediatamente la linea che rincalza: – «Anzi parliamone ancora». – E ancora: il vago senso del non voler vivere, che è nella prima parte dell’Esame, è fugato da un risoluto: – «vivere vogliamo e non morire» – e la briga di scrivere e di parlare, di fare della letteratura o, magari, dell’arte si fa sempre più fastidiosa in chi all’inizio della guerra aveva protestato di non acconciarsi a buttar via lavoro, abitudini, sogni, amori e vizii, come una cosa improvvisamente vuotata di sostanza e di vincoli. No; niente si vuota in Renato Serra e nessun vincolo in lui si dilacera.
Egli mira la guerra di là del bene e del male che è nei suoi flagelli, nelle sue tormente e nei suoi lavacri e nelle sue redenzioni autentiche o effimere, come una bella vivida passione che lo strappa alla solitudine e che, in un’ora sacra, gli colloca intorno, per una gesta comune, compagni degnissimi. E la sua tragedia intima, – tessuta di contraddizioni solo apparenti – veggente, non illusa e non illudente gli altri, si converte in un virile lirismo. Eccone una strofe:
– «Purché si vada! Dietro di me son tutti fratelli, quelli che vengono, anche se non li vedo o non li conosco bene… Mi contento della strada che faremo insieme, e che ci porterà tutti egualmente: e sarà un passo, un respiro, una cadenza, un destino solo, per tutti». – Eccone un’altra: – «Non mi occorrono assicurazioni sopra un avvenire che non mi riguarda. Il presente mi basta; non voglio né vedere né vivere al di là di quest’ora di passione».
Quest’ultimo brano dimostra che in Esame di coscienza, dove uno spirito si muove senza rumore e muta qualchecosa in sé, anche se non crede a vitali o radicali mutamenti esteriori, a poco a poco ogni contraddizione – sia pure solo superficiale – scompare. Le ultime pagine, diversissime dalle prime, non le contraddicono. Non v’ha urto fra il principio e la fine del libro, nessuna disgregazione fra l’artista insorto a difendere la propria umanità e il proprio umanesimo e il soldato colpito in fronte da una palla austriaca. L’ora di passione l’ha avuta piena e ci è vissuto e morto dentro. Inconsapevole o presago che il suo Esame di coscienza era un testamento? Non lo sappiamo.
Certo, è una confessione che sfiora i più delicati e invisibili tessuti dello spirito e ne scioglie e ne allaccia parecchi. Confessione monofonica, che, in alcune pagine di limpida, quasi abbrividente e sensitiva prosa, è corsa alle radici da una linfa musicale che tutto aduna in suono, eco e vibrazione, a sinfonia. Esame nobile, puro di una coscienza che da vero esisteva e sapeva modulare ogni suo flusso e riflusso e riassorbirsi poi tutta nei suoi succhi.