Il Sole 24 Ore, 29 aprile 2016
Quei 70 miliardi di titoli di Stato per la mancata condivisione dei rischi
Il Qe della Bce è trasparente, in quanto a cifre. Sul sito della Banca centrale europea gli acquisti del Pspp (public sector purchase programme o programma di acquisto di titoli del settore pubblico) sono divulgati con regolarità: dal giorno di avvio, 9 marzo 2015, al 22 aprile 2016, sono stati acquistati dalla Bce e dall’Eurosistema bond pubblici per un totale di 709 miliardi. Al 31 marzo di quest’anno, la quota italiana (titoli di Stato italiani e di agenzie pubbliche) sull’intera torta era pari a 105 miliardi.
Quel che questi numeri non dicono è che il Qe della Bce è frammentato tanto quanto l’Unione monetaria europea, che ha una moneta unica ma non ha ancora un unico titolo di Stato con un unico rischio sovrano e un unico rating. Il fatto che il titolo di Stato italiano sia più rischioso di quello tedesco o francese (e questo è riflesso nei rating e anche nello spread tra diversi titoli e rendimenti) ha frenato finora la condivisione piena dei rischi nell’ambito del Pspp. E questa anomalia tutta europea (la Federal Reserve nel suo Qe acquista treasuries senza vincoli di capital keys o risk sharing) è emerso chiaramente ieri nel bilancio della Banca d’Italia, che con l’avvio del Qe si è gonfiato di titoli di Stato italiani, saliti a quota 70 miliardi nel 2015 oltre che di altri titoli (il portafoglio di Bankitalia dei titoli detenuti per finalità di politica monetaria, ha detto il governatore Ignazio Visco, è salito da 35 a 122 miliardi complessivamente). L’istituto di Via Nazionale, infatti, acquista direttamente il 90% dei titoli di Stato italiani mentre la Bce ne mette in portafoglio solo il 10% sul totale. In soldoni, questo significa che nel caso (per ora un’ipotesi puramente teorica) di un default dello Stato italiano, la Banca d’Italia sarebbe molto più esposta, e più direttamente rispetto al bilancio della Bce. Un default dell’Italia, con i suoi 1.900 miliardi di titoli di Stato in circolazione non solo sul mercato domestico ma in tutto il mondo, sarebbe un terremoto di tale violenza e intensità da mettere a rischio la sopravvivenza dell’euro e della stessa Bce, ma non per colpa della condivisione dei rischi sugli acquisti del Pspp.
Il risk sharing nel Pspp sale in verità a quota 20% prendendo anche in considerazione il 10% acquistato dalla Bce e riservato nell’ambito del programma agli acquisti di titoli di debito emessi da enti sovrannazionali. Il risk sharing, la condivisione del rischio di credito, è invece totale nel programma di acquisti dei covered bond, delle cartolarizzazioni Abs e delle obbligazioni societarie, categorie che sommate ai titoli pubblici formano il programma di attivi App (Asset purchase programme da 80 miliardi di acquisti su base mensile).
Il risk sharing mette a nudo dunque i limiti e le fragilità di un’unione di nome ma non di fatto: la mancata condivisione totale dei rischi di credito e di controparte tra gli Stati dell’Eurozona sta frenando ora il cammino dell’Unione bancaria sulla questione della creazione del meccanismo unico di garanzia sui depositi e non è escluso che riemerga in futuro sull’intervento del fondo di risoluzione unico.
Neanche il Qe sarebbe stato possibile se le banche centrali nazionali si fossero impuntate sul risk sharing e non si fossero messe d’accordo sull’applicazione della capital key (l’acquisto dei titoli dei 19 Stati è ripartito con la stessa percentuale di partecipazione delle banche centrali nazionali nel capitale della Bce in base al Pil e alla popolazione del proprio Paese) e sugli acquisti di titoli di Stato in capo per il 90% alle banche centrali nazionali. Finché nell’Eurozona il debito/Pil degli Stati continuerà a spaziare dal 30% al 130%, il risk sharing rischia di rimanere un tabù.