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 2016  aprile 29 Venerdì calendario

La Capria ricorda i suoi amici scomparsi, da Parise a Rosi, da Moravia alla Ortese. Ecco un’anticipazione dal nuovo libro

Giorgio Biferali per Il Messaggero
Leggere Raffaele La Capria significa capire chi siamo, come siamo arrivati fin qui. Dopo essere migrato a Roma nel 1950, proprio come Pasolini, suo coetaneo, esordisce con Un giorno d’impazienza nel 1952, un romanzo ciclico che si svolge tutto nell’arco di una giornata, in cui si racconta il tentativo fallito di un giovane di passare all’età adulta.
Quasi dieci anni dopo, nel 1961, La Capria vince il Premio Strega per il suo secondo romanzo, Ferito a morte, che si apre con una spigola, «quell’ombra grigia profilata nell’azzurro», in una cornice luminosa, «nel cerchio tranquillo del mattino». E dopo Amore e psiche (1973), l’unico romanzo che vorrebbe non aver scritto, La Capria decide che da lì in poi scriverà solo racconti: Fiori giapponesi (1978), La neve del Vesuvio (1988), Napolitan graffiti. Come eravamo (1998). Quando scrive, che si tratti di narrativa o di saggistica, La Capria si affida sempre a quello che lui chiama “lo stile dell’anatra”, che sembra immobile e tranquilla, sulla superficie dell’acqua, mentre sotto le zampette si muovono e si agitano di continuo.
SCENEGGIATORE
Dagli anni Sessanta in poi, collabora anche alla sceneggiatura di diversi film, tra i quali Le mani sulla città (1963), Uomini contro (1970), Cristo si è fermato a Eboli (1979), diretti dal suo grande amico Francesco Rosi.
E proprio a Rosi è dedicato il primo dei dodici ritratti contenuti in Ai dolci amici addio, in uscita il 29 aprile per nottetempo (pp. 146, 12,50 euro), «un compianto per quelli che non ci sono più».
Una serie di testamenti indiretti, di ricordi, di aneddoti, di lettere, in cui La Capria racconta personaggi come Goffredo Parise, Alberto Moravia, Elsa Morante, Valentino Bompiani, Cesare Garboli, Anna Maria Ortese, e tutti i suoi “dolci amici” che l’hanno accompagnato nella «trincea dell’età», e della vita, che con la loro scomparsa l’hanno costretto a guardarsi indietro, a dare una nuova forma al presente, a riconoscersi in un tempo che non tornerà più.
L’estratto pubblicato qui accanto proviene dal capitolo dedicato a Goffredo Parise, «un pessimista così innamorato della vita».

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Un estratto dal nuovo libro di Raffaele La Capria Ai dolci amici addio, pubblicato da Nottetempo e da oggi in libreria.

Scesi le scale dell’ufficio e mi fermai da Rosati, ero seduto lì fuori a un tavolo quando con mia sorpresa mi si presentò davanti Goffredo Parise, che conoscevo solo di nome e che molto ammiravo. Mi sorrise, mi tese la mano dandomi un foglietto, mi disse: «To’». Mi dava il suo voto. Per me quel voto valeva più del Premio Strega (che poi vinsi per un solo punto, forse – mi piacque pensare – per il voto che mi aveva dato Parise). Da allora nacque tra me e lui un’amicizia e una reciproca simpatia che durò fino alla sua morte.
Passavamo spesso le sere di quegli anni sessanta nei caffè a chiacchierare. Come mi piaceva la sua cadenza veneta! Era una musichetta ironica nascosta dentro tutto quel che diceva. Lui sapeva raccontare senza scomporsi, e in modo così divertente, e con particolari così inconcepibili, che alla fine il fatto che fosse tutto vero o tutto inventato era solo una questione secondaria e irrilevante. A volte era lui a spingere l’altro a parlare, e quello incalzato dalle domande, sempre più indiscrete e invadenti, cominciava a confidarsi, a dire cose che non avrebbe mai detto a nessuno.
Una sera a via Veneto (era l’epoca a Roma della Dolce Vita!) puntò due “lolite” vestite e truccate in modo piuttosto stravagante, cominciò a fissarsi su quelle due, a studiarle, e costrinse me ed Enzo Bettiza a una specie di inseguimento attraverso bar, discoteche, teatrini off, tutto per riuscire a ricostruire, in modo plausi- bile, da scrittore, come due ragazze di quel tipo lì passavano la serata. Uno scrittore, diceva, deve sempre documentarsi. La cultura non è aver letto libri, è aver lavorato per capire. Non solo le cose importanti, ma le cose, tutte le cose che ci circondano, con la curiosità innocente che hanno anche i bambini.
Una sera stavamo chiacchierando del più e del meno a piazza del Popolo, quando all’improvviso Goffredo s’interruppe e accostando la faccia alla mia mi sussurrò all’orecchio: «Voltati senza farti notare. Lo vedi quel signore corpulento e volgare con quella specie di puttana tutta truccata a fianco?» Io mi voltai ed effettivamente alle nostre spalle c’era un tipo così. «Quello è mio padre. Mio padre naturale», aggiunse. Gli domandai perché non lo salutava. Era andato una sola volta a trovarlo, mi disse, una visita molto formale, per domandargli se c’era in famiglia l’eventualità di malattie ereditarie, e poi gli aveva tolto il saluto: «Visto che lui non mi ha riconosciuto quando sono nato, ho deciso anch’io di non riconoscerlo quando lo incontro».
Adesso ci scherzava su col suo umor nero, ma non essere riconosciuto era stato un trauma tremendo per lui, in una piccola città, dove tutti amano spettegolare di queste cose. Era o non era suo padre quella sera? A Goffredo piaceva fare il misterioso. E anche se le sue storie avevano sempre un fondo di verità, non si sapeva mai fino a che punto bisognava crederci. Così quando parlava di sua moglie, di come l’amava e come erano difficili i loro rapporti (questo ai primi tempi), diceva tutto contento, come se raccontasse le prodezze di un ragazzino: «Hai visto come zoppico? Mi ha colpito il ginocchio col suo tacco a spillo. Sono affilati come pugnali, litigare con lei è pericoloso, fa una mossa, tac, e sei azzoppato!». E tirava su il pantalone fino a scoprire il ginocchio che era effettivamente fasciato. Poi, chissà se veramente aveva litigato con sua moglie, ma l’immagine di questa moglie bambina che usava i tacchi a spillo con mosse da karatè, era graziosa ed esilarante.