La Stampa, 29 aprile 2016
I diamanti sono i migliori amici delle banche e degli investitori. Altro che ragazze
Sandra Riccio per La Stampa
Dalle vetrine delle gioiellerie più prestigiose agli sportelli delle banche. I diamanti, da qualche tempo, sono diventati anche «da investimento». In fase di incertezza seducono con il richiamo del bene rifugio. Ad attrarre è anche il rendimento in un momento in cui i guadagni offerti dagli strumenti più tradizionali come i Btp, il mattone e l’oro, sono sotto zero. Negli ultimi cinque anni, i diamanti da investimento hanno dato un ritorno del 3,5% medio annuo, secondo i dati del leader italiano di mercato, Intermarket Diamond Business (Idb). L’immobiliare e l’oro, nello stesso arco di tempo, sono invece andati in rosso.
Le banche, con i grandi istituti in testa, si sono da tempo attrezzate per offrire questo tipo di strada alternativa e sul mercato arrivano anche nuovi operatori. Bolaffi, storica casa d’aste di Torino, ha appena aperto ai diamanti per chi vuole investire. «È un’esigenza che abbiamo registrato tra la nostra clientela anche per necessità di diversificazione – racconta Filippo Bolaffi, ad di Bolaffi Spa -. Molti erano alla ricerca di questo tipo di proposta ma non si fidavano delle offerte poco trasparenti che c’erano sul mercato».
Boom di domanda
«Solo nei primi quatto mesi dell’anno abbiamo visto un balzo delle vendite del 50%» dice Claudio Giacobazzi, ad di Idb. E se una volta a comprare le pietre preziose era il grande imprenditore o la famiglia danarosa, oggi gli acquisti li fanno anche studenti e pensionati. Per chi non vuole tenersi le pietre in casa, ci sono servizi ad hoc come la custodia in caveau appositi (il costo è intorno ai 100 euro l’anno). «C’è un forte interesse – afferma anche Roberto Maldina, del settore Personal di Intesa Sanpaolo -. Noi consigliamo di investire nei diamanti non più del 5% del proprio patrimonio».
Le porte ai portafogli più piccoli si sono aperte anche grazie ai tagli bassi proposti. Oggi bastano 4 mila euro per investire in queste pietre (che sono, dicono gli operatori, sempre eticamente garantite). Occorre però muoversi con molta cautela e affidarsi a veri professionisti. Le trappole sono tante. Come prima cosa occorre sapere che quello dei diamanti è un mercato illiquido, vuol dire che non è facile rivendere. Quindi i tempi per la cessione si allungano soprattutto se le pietre hanno importi elevati. «Il lavoro che facciamo a monte della vendita è anche quello di selezionare delle pietre che abbiano una caratteristica di potenziale alta rivendibilità futura» dice Filippo Bolaffi che con la sua società propone tagli dai 4 mila fino a 20 mila euro.
Va detto poi che i diamanti da investimento sono solo una piccolissima parte, il 2% del «tagliato». Niente a che vedere con le pietre preziose che si montano sui gioielli. Per i diamanti da investimento serve la garanzia di avere davvero tra le mani una pietra che non nasconda brutte sorprese. E di istituti che offrono certificazioni in materia ce ne sono a volontà. Non ci si può fidare di tutti però. Il nome più riconosciuto sul mercato internazionale è quello del Gia, l’Istituto gemmologico di New York.
Prezzi poco trasparenti
A differenza dell’oro che è quotato continuamente, il diamante non ha un fixing. Le quotazioni dei diamanti vengono invece pubblicate ogni tre mesi sui quotidiani finanziari, i valori sono aggiornati solo periodicamente (si trovano anche sui siti dei grandi operatori). In più le variabili che determinano il prezzo sono tante e, anche a parità di caratteristiche (forma, peso, colore, purezza, taglio, fluorescenza e certificazione internazionale), le quotazioni alla vendita sono suscettibili di variazioni sensibili. In pratica solo il peso è misurabile e oggettivo. Il resto viene valutato di volta in volta e se il certificato iniziale non è stato ben redatto si può perdere anche il 70% di quanto pagato. Basta, per dire, che le caratteristiche siano abbassate di un paio di gradi sulla purezza. «Non bisogna guardare esclusivamente al prezzo – dice Claudio Giacobazzi -. In primo piano ci deve essere la ricerca di protezione». Gli esperti inoltre raccomandano di avere un orizzonte temporale di almeno 7 anni, cioè di lungo periodo. Di sicuro non è un investimento che si presti al trading, vale a dire a un acquisto e a una vendita in poco tempo. Nell’operazione occorre, infatti, calcolare il costo dell’Iva (22%) più un altro 3% di commissioni all’intermediario. Si parte quindi già con una perdita del 25% in portafoglio. Per ammortizzarla occorre far passare un po’ di tempo. Meglio poi se è lunghissimo o magari «per sempre.
Francesco Manacorda per La Stampa
Se davvero è per sempre nessuno di noi, per ovvi motivi, lo saprà mai. Ma almeno per ora - in quest’epoca di ansie da tassi d’interesse sotto zero, mercati finanziari sull’ottovolante e mattone impiombato dalle tasse - un diamante ci può stare.
Lo pensano grandi banche che hanno cominciato a venderlo allo sportello, alternativa al vecchio Bot che non brilla più. Lo crede anche un nome antico come quello di Bolaffi, finora più noto per i valori bollati che per quelli carati, che ha appena annunciato il suo sbarco nel business.
Sarà un buon affare il diamante da risparmio? Non vi aspettate risposte definitive: come per ogni investimento molto dipende anche dalla durata e dall’obiettivo che ciascuno di noi si pone. No - in estrema sintesi - se si pensa di rivenderlo dopo pochi mesi o pochissimi anni, visto che una pietra preziosa non è facilmente liquidabile e le commissioni rischiano di tagliarne via un bel pezzetto; forse sì se le prospettive sono più lunghe. E comunque molto dipenderà anche dall’andamento del mercato delle gemme, che negli ultimi anni non è stato esattamente brillante: apertura di grandi giacimenti e domanda mondiale in frenata - proprio come è accaduto al meno nobile cugino petrolio - hanno spinto in basso le quotazioni dei diamanti all’ingrosso, di cui il colosso De Beers è il maggior commerciante al mondo.
Ma valori materiali a parte il ritorno del bene rifugio per eccellenza spiega molto della nostra epoca e delle nostre paure. In fondo che cosa c’è di più rassicurante - nell’epoca dei mercati immateriali e delle transazioni che spostano miliardi con un click - di una piccola gemma da tenere in mano o chiudere in cassaforte? E che cosa appare più solido di una pietra - preziosa sì, ma sempre pietra - di fronte al rischio che un calo dei tassi giapponesi, uno scandalo alimentare cinese, un attentato ai pozzi iracheni, un singhiozzo nelle vendite dell’iPhone o chissà che altro remoto episodio mandino all’aria le Borse di mezzo mondo?
Custodito nei sacchetti di pelle che si aprono all’improvviso rovesciando una piccola cascata abbagliante, cucito nella fodera dei vestiti o nascosto in un sottofondo per passare frontiere ostili e terribili gendarmi, in casi meno funesti splendente su un anello di fidanzamento, il diamante è ben incastonato nel nostro immaginario, stretto nella corona di mille libri e film. E anche quando è il più naturale dei prodotti del sottosuolo rimane un po’ artificiale, visto che nel corso degli anni a rifinirlo alla perfezione per renderlo sempre più attraente non sono stati solo i tagliatori di Amsterdam o New York, ma un esercito di geniali propagandisti. «Un diamante è per sempre» non dalla notte dei tempi, ma solo dal 1947, quando una pubblicitaria americana single che si chiamava Frances Gerety inventò lo slogan perfetto per la solita De Beers e per un esercito di aspiranti spose e fidanzate. Sarà un po’ meno romantico, ma oggi «un diamante è per sempre» almeno fino a quando l’economia non comincerà a luccicare un poco anch’essa e i tassi d’interesse torneranno a salire.