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 2016  aprile 29 Venerdì calendario

«Caro fratello Abderrahim, ti mando il poema bomba, ascolta lo sceicco e colpisci». Così Moutaharrik e altri cinque jihadisti volevano farsi esplodere in Vaticano. Cronaca di un attentato fallito e finito con sei arresti

«Nei Paesi cristiani un’unica operazione ci soddisfa di più di decine di bombe, più impatto a creare sofferenza dei nemici di Dio». L’ufficio del personale dell’Isis sta cambiando le proprie politiche d’azienda: quando dall’Italia riceve la disponibilità di qualche aspirante foreign fighter disposto a partire, l’organizzazione terroristica (fattasi Stato tra Siria e Iraq ma messa a dura prova dai bombardamenti) tende a dilazionare l’autorizzazione-accreditamento ( tazkia ) per il viaggio di arruolamento con annesso trasferimento sui campi di battaglia anche dei figli piccoli dei genitori-combattenti, e inizia invece a chiedere ai volontari che agiscano come «lupi solitari» con attentati nelle loro città. A Roma, se possibile, in Vaticano «capitale dei crociati, dove vanno a fare il pellegrinaggio». Perché «se fai un attentato è una cosa grande».
Al di là della conferma del fattore familiare e dell’importanza delle donne nel percorso di radicalizzazione di mariti e fratelli, è questa la preziosa novità investigativa acquisita dalle indagini di Ros e Digos (supportati dai servizi di sicurezza) con le quali i pm milanesi Romanelli-Cajani-Pavone hanno ottenuto dal gip Manuela Cannavale l’arresto per «terrorismo internazionale» di 6 persone. Il 23enne marocchino di Brunello (Varese) Abderrahmane Khachia, è fratello di quell’Oussama andato a combattere con l’Isis a Ramadi e morto in battaglia nel 2015. Poi Abderrahim Moutaharrik, 28enne campione di kickboxing che viveva a Lecco ma si allenava in una palestra di Lugano, destinatario dell’ordine dell’Isis di colpire Roma (lui accarezzava l’idea anche dell’ambasciata israeliana), e da questa investitura talmente esaltato da progettare «sarò il primo ad attaccarli in questa Italia crociata». Sua moglie Salma Bencharki, 26 anni. E la 24enne Wafa Koraichi, che a Baveno (Verbania) fa la cameriera con il marito pizzaiolo, e che è sorella di un combattente arruolatosi nel 2015 in Siria sotto le bandiere del Califfato, Mohamed Koraichi.
Destinatari di due ordini d’arresto non eseguiti sono proprio il 31enne marocchino Mohamed Koraichi (referente dell’arruolamento del pugile) e sua moglie italiana (convertitasi all’Islam) Alice Brignoli, che a Bulciago (Lecco) «erano disoccupati e ricevevano sussidi statali e aiuti dai loro genitori», ma che poi nel febbraio 2015 avevano raggiunto le truppe del Califfato portandosi dietro i tre figlioletti di 6, 4 e 2 anni: Ismail, Ossama e S’ad, cioè i tre bimbi che, in tuta mimetica e col dito alzato verso il cielo, compaiono (insieme a un quarto bambino figlio della vedova olandese di un altro jiahdista) in una foto indicata dal gip come «l’immagine simbolo della vita attuale di Alice Brignoli, dal momento che l’ha impostata come foto del suo profilo WhatsApp».
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Concrete (seppur embrionali) organizzazioni di attentati, no. Ma è la prima volta che una indagine giudiziaria «ascolta» uno specifico dirigente dell’Isis impartire dalla Siria a uno specifico volontario in Italia l’ordine di fare un attentato in Italia: «Ascolta lo sceicco, colpisci! Sgozza, che con il coltello è attesa la gloria, fai esplodere la tua cintura nelle folle dicendo “Allah Akbar”! Esplodi come un vulcano, agita chi è infedele. Affronta la folla del nemico ringhiando come un fulmine, pronuncia ‘’Allah akbar” e esploditi! O leone!».
Gli audio su WhatsApp
Nel marzo scorso quando due indagini parallele di carabinieri e polizia – su una coppia di «foreign fighters» andati a combattere in Siria portandosi dietro i tre figli di 2 e 4 e 6 anni, e su un campione di pugilato e arti marziali amico del fratello di un altro «combattente» morto in battaglia l’anno scorso – convergono su una serie di audio scambiati via WhatsApp. In Italia il pugile Moutaharrik e il suo amico Khachia, in Siria il foreign fighter Koraichi e un misterioso personaggio che chiamano «sceicco», che non è stato identificato, ma che (da come viene trattato e da come si esprime in arabo classico) appare un dirigente del Califfato, legittimato a dare quella dote che il boxeur cerca ansiosamente: la tazkia, che nell’ambito dell’estremismo islamico sta a indicare la raccomandazione o accreditamento effettuati da un aderente di un gruppo nei confronti del candidato che domandi di essere arruolato. Moutaharrik, non avendo un sicuro canale diretto con Koraichi, insieme alla moglie decide di contattarne la sorella, Wafa Koraichi, affinché sia lei a contattare il fratello per ottenere la tazkia.
«Fai un attentato»
Ma, un po’ a sorpresa, dalle terre del Califfato arriva una indicazione diversa. Non tanto di precipitarsi a combattere in Siria, quanto piuttosto di agire subito in Italia: «Fratello mio – dice il 25 marzo Koraichi dalla Siria al pugile che vive a Lecco – in quella Italia, quella è la capitale dei crociati, è dove vanno a fare il pellegrinaggio, è da dove prendono la forza e combattono l’Islam, fino ad ora non è stata fatta nessuna operazione, sai che se fai un attentato è una cosa grande».
E l’8 aprile, sempre sotto forma di un audio su whatsapp, dallo «sceicco» arriva a Moutaharrik il «poema bomba»: che non è un modo pittoresco di etichettarlo, ma l’indicazione stessa di chi lo indirizza all’eletto per l’attentato, Abderrahim (il nome di battesimo del pugile): «Caro fratello Abderrahim, ti mando (...) il poema bomba (...) ascolta lo sceicco e colpisci».
«Io il primo a colpire»
In altri momenti il pugile viene arringato sulla scorta delle stragi in Francia, «grazie a Dio abbiamo sentito le operazioni che sono state in Francia, operazioni dell’invasione della Francia, di Parigi, benedetta da Dio, le invasioni in Belgio, in America», e ancora «sarete di quelli che auspicano a fare questo bene lì nei paesi dei cristiani, a Roma, in Italia, in Spagna, in Francia cristiana, in Inghilterra cristiana, maledizione di Dio su di loro».
Questura o ambasciata
Galvanizzato dall’aver ricevuto questa sorta di investitura all’attentato, Moutaharrik immagina confusamente quale potrebbe compiere, «l’unica richiesta che ti chiedo – dice al suo referente in Siria – è la famiglia, almeno che i miei figli crescano un po’ nel paese del Califfato». E «se riesco a mettere la mia famiglia in salvo, giuro sarò io il primo ad attaccarli (...) in questa Italia crociata, il primo ad attaccarla, giuro l’attacco nel Vaticano con la volontà di Dio». Accarezza anche l’idea di un attentato alla Questura di Varese («se trovavo qualcuno che mi preparava per l’operazione...») o all’ambasciata israeliana: «Amico mio, io una volta mi sono alzato e messo a progettare... che voglio picchiare Israele a Roma. Sì, l’ambasciata...». A sentire lui, si sarebbe anche mosso alla ricerca di un’arma, «sono andato da un ragazzo albanese a Varese e gli ho detto di procurarmi una pistola, la volevo comprare da lui», ma «forse lui si è insospettito di me e mi ha girato le spalle».
La «cantera» del terrore
È a questo punto che i magistrati decidono di non rischiare più. E di passare dal controllo 24 ore su 24 («non c’è stato un minuto in cui non siano stati vigilati», spiega Lamberto Giannini capo dell’antiterrorismo della Polizia) agli arresti, che al procuratore nazionale antiterrorismo Franco Roberti fanno dire: «Sono stati fermati questi potenziali uomini-bomba». Che, come addita il comandante del Ros, Giuseppe Governale usando l’analogia col vivaio calcistico del Barcellona, erano anche gli artefici «della “cantera” dei potenziali terroristi di domani».