La Lettura, 24 aprile 2016
Vivere senza mai parlare con nessuno, tra bancomat, macchinette del caffè e acquisti online
Prelevo i soldi alla cassa automatica. È un bancomat di nuova generazione, loquace, mi esorta a eseguire le operazioni con voce stentorea: digitare il codice, estrarre la tessera. La volta scorsa mi ha fatto gli auguri di compleanno. Per fortuna non c’era nessuno in coda. Ore 9.10, non sarà l’ultima macchina parlante della giornata. Potrei entrare in agenzia per comunicare la variazione di indirizzo e altre piccole questioni, sembra esserci poca gente, l’impiegato allo sportello è anche un tipo simpatico, ma sistemerò tutto dal computer appena torno a casa. Perché perdere tempo in chiacchiere inutili?
Salgo di nuovo in macchina e mi fermo alla stazione di servizio. Scelgo la corsia self-service. Quando tocca a me, esco nella bolgia, una mezza dozzina di benzinai che si urlano battute, informazioni, ordini da una parte all’altra delle pompe, in un viavai di auto che scalano posizioni e clienti che si dirigono a pagare all’interno. Faccio rifornimento indisturbato come un fantasma. Dentro, la cassiera sta parlando al telefono, non ho bisogno di dire niente, metto trenta euro sul banco e lei fa lo scontrino continuando a discutere, di cani mi sembra, forse con un dog-sitter, chissà.
In palestra c’è il tornello con il riconoscimento delle impronte digitali, anche lui dotato di voce stentorea: sollevare il dito, ingresso consentito! La ragazza al desk è impegnata in una telefonata. Le appare la mia scheda sullo schermo del pc, solleva lo sguardo, mi sorride con quel tipo di cordialità messa a punto in chissà quali corsi di formazione e ormai adottata in massa da questo genere di lavoratrici, un sorriso da interfaccia client/server su cui puoi solo scivolare, la nuvoletta impossibile da fraintendere: ti sto sorridendo, ma non sto sorridendo a te.
A quest’ora c’è poca gente agli attrezzi, l’affollamento è ai tapis-roulant e alle biciclette ellittiche, quasi tutti professionisti che possono recarsi in ufficio un po’ più tardi, in netta prevalenza donne, di età indefinibile, e due tre massaie non meno toniche ma con qualche lieve segno del tempo. Sulle macchine ci sono gli schermi ovviamente, ma ognuno è dotato del proprio tablet, su cui guarda la serie preferita o magari sta già leggendo mail di lavoro, preparando riunioni, chissà. Le donne, soprattutto le donne, alternano la visione dell’iPad a una frenetica comunicazione su Whatsapp. Hanno fitti dialoghi mattutini che consumano in silenzio, digitando con gli auricolari nelle orecchie, senza perdere il ritmo della pedalata. Gli uomini e le donne che frequentano la mia palestra si ignorano. In mesi e mesi non ho visto che rapidi saluti e qualche segno di gentilezza nell’avvicendarsi sulle macchine, per il resto solo tanto allenamento, tablet, musica e chat.
Forse sono tutti timidi come me. In effetti anch’io mi pianto nel cervello le compilation di un vecchio iPod e comincio a pedalare. Intanto sugli schermi a parete vanno videoclip con ragazze che succhiano gelati, ragazze che ingoiano banane, ragazze che accarezzano con unghie rostrate le scanalature di addominali maschili pieni di goccioline. E noi buttiamo l’occhio, o semplicemente guardiamo, continuando a sudare gomito a gomito. Ma forse non si tratta di timidezza. Forse non possiamo fare altro che ignorarci, indaffarati come siamo a gestire – a sbrigare? – la vita che ci aspetta là fuori.
La vita non è mai qui, non è mai ora. Dislocata, differita, lontana nello spazio e nel tempo dal punto in cui ci si trova a respirare, è una vita vissuta sempre altrove, una pratica la cui prevista espletazione avverrà laggiù, alla fine dell’allenamento o del viaggio o della giornata, oppure, il che è lo stesso, sta già avvenendo in ogni momento, costantemente, nell’universo parallelo della rete. Con chi staranno chattando tutte queste donne alle nove del mattino? Col marito? Con la baby-sitter? In realtà, affannandosi mute sulle macchine stanno già vivendo eccome – fidanzati, amanti, amiche, confidenze, apericene, ristorantini, lounge – vita vera, sì, ma non qui. Sulla bici c’è l’avatar: loro sono nella rete, su Facebook, su Whatsapp, in ogni caso non in palestra.
Se negli ultimi anni abbiamo assistito a un ritorno trionfante della scrittura a dispetto dell’oralità, è anche perché parlare, nel senso di rivolgersi la parola, non è più necessario. Era necessario quando eravamo vincolati alla presenza e ne rispondevamo con la nostra faccia, col nostro corpo. Ora che la presenza è solo apparente, o meglio vicaria, posso scambiarmi messaggi con più persone e condurre più vite nello stesso tempo, sempre in attesa del momento apicale della giornata (o della settimana), quando cioè finalmente vivrò in carne ed ossa nel luogo e nell’attimo in cui respiro.
Sicché esco dalla palestra senza aprir bocca e faccio lo stesso al supermercato, dove scelgo, peso, etichetto e mi servo della cassa automatica, un’altra macchina contenta di impartirmi ordini (ma l’entusiasmo non è solo appannaggio delle voci digitali, anche le voci umane, sempre femminili, dei risponditori automatici sprizzano gioia, nella telefonia ad esempio). Il tutto mentre sono circondato da un’altra quantità di adulti, dall’aria un po’ meno vincente di quelli di prima – sono le 11 del mattino e spingono il carrello della spesa – ma comunque impegnati a scriversi con persone lontane, o semplicemente chiusi nel loro cilindro di intangibilità in vista del momento in cui riprenderanno a vivere. E così nel corso della giornata scanserò la cassiera e ogni minima occasione di contatto, pur non avendo nulla contro la cassiera né il resto degli umani con cui di fatto condividerò gli attimi in cui si consuma incessantemente – un respiro, un altro respiro – la mia esistenza.
Risalgo in casa a svuotare le borse. Scendo a prendere il tram e poi la metro per la stazione. L’immersione nella folla, la culla del mutismo. Sulle banchine, sulle scale mobili, siamo monadi senza porte né finestre: possiamo immaginare i pensieri altrui come fanno gli angeli de Il cielo sopra Berlino, ma che senso avrebbe parlarsi? Non stiamo mica vivendo?
Alla stazione Termini mangio al self-service del piano rialzato, dopo essermi seduto col mio vassoio accanto ad altri divoratori di insalate rispettosi della privacy. All’edicola indico i quotidiani col dito mentre il giornalaio sta parlando nel microfono degli auricolari. Poi entro nella saletta delle Frecce e mi faccio un caffè alla macchinetta. Trovo a fatica un posto a sedere nella calca, agenti di commercio, avvocati, dirigenti di azienda, tutti al lavoro sui portatili o al cellulare. Mando anch’io messaggi alle persone che mi aspettano nei vari posti dove, nel corso della settimana, uscirò dalla modalità standby. Ne mando un paio anche alla donna con cui sto, ragguagli sugli orari del cinema a cui risponde fulminea. Immagino che anche lei starà inviando, postando, taggando, chiusa nel suo cilindro di intangibilità, in giro per Roma o in ufficio. Che stia chattando come le mie compagne di palestra? Di solito mi mostra i messaggi dei corteggiatori, è una vanità di cui ridiamo insieme, un giochetto. Ma chi mi assicura che non ne ometta qualcuno? Certo, sembra così coinvolta a casa, tutti però sembriamo coinvolti a casa, e magari stiamo in standby o già vivendo altrove.
Sul treno mi siedo di fronte a una tizia che sta spiegando, immagino a un collega in ufficio, la posizione della controparte eccetera eccetera. Apriamo all’unisono i portatili e scompariamo lì dentro. Penso a Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini: gli innumerevoli incontri, sempre determinanti per la storia del protagonista e l’evolversi della sua avventura umana. Penso all’ Orecchio assoluto, da poco ripubblicato da Einaudi insieme a tutti gli altri Racconti di Daniele Del Giudice: il treno come possibilità non solo di chiacchiere a scopi seduttivi o di intrattenimento, bensì di vero apprendimento, un uomo illustra all’io narrante i segreti della polvere (ma il dialogo sarà rivelativo per entrambi gli interlocutori).
Quando arriva il capotreno, sia io che la donna esibiamo il codice del biglietto elettronico continuando a lavorare. A Milano raggiungo l’aula universitaria dove si tiene la conferenza di cui devo scrivere. Una cinquantina di persone sparse sulle poltroncine da cinema, in ascolto come me, un occhio al professore, un occhio al telefono silenziato. Due ore dopo sono di nuovo in treno verso Roma. Leggo, scrivo, compro i biglietti per il cinema di stasera così evitiamo la coda e le chiacchiere inutili: le va bene in fila H? eccetera.
Ed eccomi alla stessa fermata da cui sono partito stamattina, l’orologio segna le 20.05. Scendo dal tram con la sensazione di non aver ancora iniziato la giornata, o meglio, sono stanchissimo, però mi accorgo di non essere ancora apparso oggi agli occhi di nessuno. Intendo: non ci sarà una sola traccia di me nelle vite che ho attraversato. E viceversa. Sono stato per undici ore in posti affollati, due grandi città piene di gente, e non ho ancora aperto bocca. Neanche buongiorno, neanche grazie. Sarei potuto essere un alieno o un terrorista e nessuno si sarebbe accorto di niente. Parlava la nostra lingua? Boh, è sempre stato zitto. Un soggetto attivo, con una normale vita di relazione, che fende lo spazio sociale di due metropoli senza mai sentire il suono della propria voce: non male, penso. E mentre sono assorto in simili elucubrazioni, supero la panchina degli uomini albero, i senzacasa del mio quartiere di cui ho scritto su «la Lettura» tempo fa. Amicoo!, mi grida alla spalle Arcimboldo e io sento un brivido lungo la schiena, impossibile non voltarsi. Signoree!, dice allargando le braccia e sorridendomi in un modo che rischia di farmi crollare in un pianto singhiozzante. Un euro, pregoo!, e tende la mano libera verso di me, mentre con l’altra regge il cartone di vino. Tieni, dico, buona serata. È proprio la mia voce, che sorpresa, un sasso scagliato contro un vetro nel silenzio della strada.