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 2016  aprile 23 Sabato calendario

Xi Jinping si è nominato comandante in capo. E ora è pronto per andare in guerra

Mister Xi va alla guerra. L’immagine del duro capo combattente in tuta mimetica si sovrappone a quella del grigio burocrate, segno che la metamorfosi di Xi Jinping si è compiuta. Il timido politico locale, il principino figlio d’arte asceso al trono di numero uno della Cina, è ormai lanciatissimo.
Quando Xi Jinping ha svelato tre giorni fa il nuovo titolo militare (comandante in capo del nuovo comando congiunto – aria, terra, mare – dell’esercito di liberazione del popolo cinese ) in molti avranno pensato: noi l’avevamo detto, che finiva così. Ormai la Cina è lui.
Un signore in divisa che incita, passandoli in rassegna, i plotoni incitandoli ad essere leali, forti e a vincere le guerre.
Il che, oggi, rende Xi politicamente più forte – pare proprio – di Mao o di Deng.
Comandante. Comandante Che Guevara, beh, per l’Occidente il titolo evoca, tra le altre, guerriglieri latinoamericani ultracelebri un tempo, oggi ridotti in tuta da ginnastica, condannati a seguire il copione delle apparizioni televisive forzate come accade al vegliardo comandante Fidel Castro e al fratello Raul.
Altri tempi, altri luoghi, altre facce, altre storie.
Qui parliamo della seconda potenza mondiale, la Cina, ormai prima a livello militare, e il titolo di comandante in capo tecnicamente autoattribuitosi da Xi, si somma a quello di segretario generale del Partito comunista cinese, presidente e chairman della Commissione centrale militare e delle forze speciali. Un poker di attributi che nessuno mai prima di lui aveva mai messo a segno.
Ma oltre lo sfoggio di formale machismo si intuisce un senso di disagio, una malcelata debolezza: Xi Jinping mai come in questo momento deve a tutti i costi rafforzare la sua posizione all’interno della nomenklatura di Pechino.
Ha fatto certamente piazza pulita dei militari che avevano reso la vita difficile ai suoi predecessori Jiang Zhemin e Hu Jintao, Guo Boxiong e Xu Caihou, pezzi da novanta dell’esercito di cui oggi uno è in disgrazia, Xu addirittura è morto in carcere. Un repulisti non privo di strascichi, intere famiglie sono state buttate giù dal piedistallo della loro potenza. Covano vendette, non si rassegnano a lasciare completamente la scena del potere.
Le voci che trapelano da Zhongnanhai, l’enclave del potere politico cinese, raccontano un’altra storia, quella di un leader in assestamento, ancora alle prese con una fronda interna che cresce al crescere del suo stesso potere.
Il muro di silenzio sulle presunte presenze dei parenti dei big cinesi nelle liste degli evasori trovate a Panama dà la misura di quanto la cortina sia di per sé segno di fragilità.
Ma se a Xi manca il phisique du role, bene, se è davvero difficile immaginarlo strisciare carponi in una trincea in stile Full metal jacket, se il culturismo non è certamente la sua principale occupazione quotidiana, è pur vero che il comandante Xi è figlio della rivoluzione culturale.
A quei tempi lavorava duramente, senza sosta, come molti suoi coetanei mandati a zappare la terra e ad allevare animali ogni giorno, senza risparmiarsi, per imparare nell’università della vita e non sui libri, cosa vuol dire far parte di una società comunista.
Su quella tenacia Xi ha creato le sue fortune e grazie a quella voglia di emergere forgiata nei campi, quasi peggiore dei lavori forzati, Xi ha fondato la sua leadership. Gli effetti di un simile training, oggi, sono sotto gli occhi di tutti. Le sofferenze di ieri hanno creato il nuovo comandante. Fino a quando durerà l’escalation non è dato sapere, di certo due giorni fa la carriera di Xi Jinping ha svoltato, per sempre.