la Repubblica - Roma, 26 aprile 2016
In ricordo di Paolo Rossi, ucciso alla Sapienza cinquant’anni fa
All’inizio non ci voleva credere nessuno: «È morto un ragazzo. All’università. Alla Sapienza». E invece è vero. Il ragazzo si chiama Paolo Rossi, ha 19 anni, è cattolico, in tasca ha la tessera della Fgs, la federazione dei giovani socialisti, è candidato alle elezioni studentesche nelle liste dei Goliardi. È iscritto ad Architettura ma il suo corpo giace ai piedi della scalinata di Lettere. Il calendario segna una data: 27 aprile 1966. La guerra in Vietnam c’è già ma del “maggio francese” non si sente ancora nemmeno il profumo. Nelle università italiane ci sono episodi di violenza politica ma è a Roma che la situazione supera il livello di guardia. Paolo Rossi muore 50 anni fa, dopo essere stato colpito alla bocca dello stomaco da un tirapugni di ferro calzato da un fascista e dopo essere precipitato da 5 metri di altezza. Nelle foto di quel giorno è impegnato a frenare un compagno di facoltà coinvolto nei tafferugli. Al volantinaggio per le elezioni studentesche sono arrivati i fascisti del Fuan-Caravella. «Venivano davanti a Lettere perché lì c’erano più donne. Cercavano di intimidirci. Io non avevo paura ma Paolo quella mattina mi disse: “Vengo con te, non si sa mai”. Maledizione». A parlare è Orietta Rossi Pinelli, sorella di Paolo. Domani alle 10 sarà sotto la targa che ricorda suo fratello davanti alla facoltà di Lettere. «Quest’anno avrebbe compiuto 70 anni».
«Gli ultimi 50 non li ha potuti vivere. E questo mi riempie di una rabbia incolmabile», racconta. Lei quella mattina non vede suo fratello schiantarsi al suolo da 5 metri. Un anno dopo, Bruno Zevi nel suo ricordo in Aula Magna fa la cronaca di quella mattina: «Viene colpito da un pugno estremamente violento che provoca un profondo ematoma al polmone sinistro. Dice a tre suoi colleghi: sono stato colpito, non mi sento bene; ma pensa di farcela, si siede sul muricciolo della Facoltà di Lettere. Intanto, esce un gruppo di professori per protestare con la polizia che assiste senza intervenire alle aggressioni neofasciste. Paolo sviene, precipita in avanti, si schianta al suolo».
Ci vogliono più di due anni prima che il 30 luglio 1968 un tribunale riconosca che la morte di Paolo Rossi come «omicidio preterintenzionale contro ignoti». È una morte impunita ma è una morte simbolica. L’università insorge. Al sit in arriva anche Ferruccio Parri. Il rettore Giuseppe Ugo Papi parla di «solite gazzarre tra studenti». Poi, dopo giorni di pressioni, è costretto a dimettersi. Scattano le occupazioni delle facoltà. Alla Sapienza è la prima volta. È la miccia per una mobilitazione generazionale che esploderà due anni dopo. «Fu il patrimonio di formazione dei quadri che costruirono il ’68», spiega Orietta Rossi Pinelli.
Ma la morte del fratello è simbolica anche per un altro motivo: «Nel gruppo di fascisti che facevano riferimento al Fuan-Caravella ci sono diversi personaggi implicati nelle trame del terrorismo nero», ricorda Vittorio Emiliani, all’epoca dirigente dell’Unione goliardica, giornalista e scrittore. Di Paolo Rossi parla in “Cinquantottini-L’unione goliardica italiana e la nascita di una classe dirigente”, in uscita in libreria. Cinquant’anni dopo è una morte dimenticata: «Era uno studente modello – conclude Emiliani – era un non violento. Doveva essere il simbolo della nuova classe dirigente. E invece, in questo grande invaso impiegatizio che era la Roma di allora, le memorie si sfilacciano, impallidiscono».