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 2016  aprile 26 Martedì calendario

Cento donne fertili per 160 maschi. Il punto sulla folle politica del figlio unico in Cina

Sul quotidiano cattolico Avvenire, un’inchiesta firmata da Stefano Vecchia fa il punto sulla politica del secondo figlio, avviata in Cina a partire dal primo gennaio 2016, dopo che, per 35 anni, è stato consentito alle coppie di avere un solo figlio. È un segno della grande attenzione con cui la Chiesa di Papa Francesco segue la Cina di Xi Jinping, con l’obiettivo di porre fine al gelo che da decenni caratterizza le relazioni tra il Vaticano e Pechino. Il tentativo dei governanti cinesi di superare i danni provocati dalla politica del figlio unico, racconta Avvenire, è giunta fino al punto di rendere ammissibile la maternità surrogata, facendo ricorso all’utero in affitto di donne cinesi, pur di consentire alle coppie di avere un secondo figlio. Una mossa volta a ridurre il flusso di richieste di maternità surrogata verso i Paesi stranieri, soprattutto verso gli Stati Uniti, da parte delle coppie cinesi benestanti, pronte a spendere tra 125 e 175 mila dollari per un utero in affitto al di là del Pacifico, secondo le tariffe in vigore presso alcune agenzie con base a Pechino.
Senza dire una parola pro o contro la maternità surrogata, l’inchiesta punta il dito sull’ennesima contraddizione di Pechino, che solo poco tempo fa aveva deciso di mettere al bando l’utero in affitto, tanto che il Congresso nazionale del popolo (il Parlamento cinese), d’intesa con il partito comunista, aveva presentato una bozza di legge per il divieto assoluto. Bozza che ora – fatto molto raro in Cina – è stata ritirata, perché «i ricchi potrebbero sempre andare all’estero, dove la surrogata è permessa». I continui ripensamenti cinesi della politica demografica, a ben vedere, sono un tema di interesse mondiale. In parte, essi sono una conseguenza degli errori del passato, soprattutto della politica del figlio unico, e in parte rappresentano una spia dei timori per il futuro, soprattutto per l’andamento dell’economia cinese, diventata la fabbrica industriale del mondo, il cui ritmo di crescita (o di scarsa crescita, qual è ora) costituisce la maggiore preoccupazione del potere politico di Pechino, e ne orienta le scelte. Con ricadute inevitabili sull’intera economia internazionale.
Riavvolgiamo il film. Nel 1957, quando la Cina aveva 600 milioni di abitanti, Mao Tze-Dong disse di non temere la guerra nucleare, perché se gli Stati Uniti e la Russia avessero ucciso con l’atomica 300 milioni di cinesi, ne sarebbero rimasti 300 milioni, sufficienti per vincere la guerra. Da lì, il detto maoista: «Più siamo, più contiamo». Fu l’inizio di una vigorosa politica demografica a favore delle nascite, che fece crescere la popolazione cinese al ritmo del 25% annuo, portandola a 800 milioni nel 1971, saliti a 900 milioni nel 1976, anno della morte di Mao. Anziché rafforzare la Cina, già allora era evidente che quella politica demografica aveva provocato un impoverimento generale. Infatti, pur avendo un quarto della popolazione mondiale, la Cina aveva solo il 7% delle superfici coltivabili nel mondo. Il che, unito agli errori grossolani di pianificazione economica del «Grande balzo in avanti» maoista, avevano prodotto una carestia micidiale, in cui milioni di cinesi morirono di fame.
Per ridurre le bocche da sfamare, il partito comunista tentò di rallentare il tasso demografico, imponendo per legge matrimoni in età più tarda e intervalli più lunghi tra le nascite, ma con scarsi risultati. Per questo, nel 1979, il leader cinese Deng Xiaoping prese una decisione drastica: per legge, le coppie cinesi avrebbero potuto avere un solo figlio. Una direttiva politica attuata con metodi brutali: aborti forzati, sterilizzazioni punitive, multe pesanti e licenziamenti, fino alla eliminazione sistematica dei nascituri di sesso femminile, in quanto nella Cina rurale le bambine erano viste come un peso per la famiglia, mentre il maschio era atteso come una promessa di reddito. La stessa gravidanza, poi, era strettamente legata al rilascio di un permesso da parte degli uffici della Commissione di Stato per la Pianificazione Familiare. Senza questo permesso, se la gravidanza veniva scoperta, l’aborto forzato era imposto dallo Stato anche su feti di sei mesi. Risultato: nei 35 anni di applicazione della politica del figlio unico, in Cina vi sono stati 400 milioni di aborti. Una strage epocale, che nel 2010 The Economist ha definito «Gendercide» a causa dell’eliminazione sistematica dei nascituri femmine.
Lo squilibrio di genere, inevitabile, ha fatto sì che nel censimento 2010 della popolazione si sono registrati 118 nati maschi contro 100 femmine. Le proiezioni al 2050 dicono che vi saranno solo 100 donne in età fertile contro 160 maschi, mentre la popolazione cinese scenderà da un miliardo 357 milioni attuali a un miliardo 210 milioni. A prima vista, sembra un calo contenuto. Ma non è così: sommato all’invecchiamento della popolazione, provocherà una perdita di 90 milioni di lavoratori, maggiori costi sociali (più medici, e centinaia di milioni di pensioni da pagare), con un rallentamento generale della crescita cinese e, di riflesso, anche dell’economia mondiale. È questa la sfida maggiore che il potere di Pechino ha davanti a sé: servono riforme strutturali, compiti a casa giganteschi nel welfare, per evitare rivolte sociali. La maternità surrogata è solo l’inizio.