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 2016  aprile 26 Martedì calendario

Crostini dell’utopia, trota del ribelle e sugo d’uva rubata: ecco cosa mangiavano i partigiani

Crostini dell’utopia, minestra della staffetta, pasticcio clandestino, penne rosse, zuppa di furore, trota del ribelle, sugo d’uva rubata: non sono i nomi di piatti di fantasiosi chef multimediali di oggi, ma “ricette in libertà e di libertà”. Una chiave di lettura originale anche per ricordarci che perfino l’etimo della parola compagno, deriva dal più solidale dei gesti umani: condividere il pane. «Fare una storia della Resistenza attraverso il cibo è entrare nel vivo dell’esistere», scrive Vinicio Capossela, cantautore e scrittore fuori dal coro, nell’introduzione di Partigiani a tavola, storie di cibo resistente e ricette di libertà (Lupetti Editore, 274 pagine, 15 euro). La ricerca, condotta dalle storiche Elisabetta Salvini e Lorena Carrara, «ci dà l’opportunità – scrive ancora Capossela – di pensare, vedere, quante quotidiane scelte ci sono da fare per essere uomini. A partire da cosa ci mettiamo in bocca, e per finire alle parole che da quella stessa bocca escono».
IL RACCONTOL’inusuale racconto della lotta partigiana sfrutta due diverse angolazioni. Da un lato le citazioni di grandi scrittori, dall’altro una ricca aneddotica popolare. Ecco così l’Agnese va a morire di Roberta Viganò, il Partigiano Johnny di Fenoglio, Pin di Italo Calvino, Enne2, il protagonista di Uomini e no di Elio Vittorini, i “piccoli maestri” di Meneghello e tanti altri personaggi della letteratura in una originale antologia, fatta di pasti consumati in fretta, di fame di libertà, del bisogno spasmodico di nutrirsi e delle tante difficoltà nel trovare da mangiare. Sull’altro versante, i ricordi di quotidiano eroismo e generosità popolare. Come quando, all’indomani del Gran Consiglio di Verona, i fratelli Cervi festeggiano con tutto il paese di Campegine la caduta del regime offrendo di tasca propria 380 chili di pasta al burro, salvo poi scoprire che la guerra era tutt’altro che finita e che nessuno dei sette fratelli Cervi – fucilati dai nazisti – riuscirà a sopravvivere. 
I SIMBOLIInsomma, la fame e i simboli del mangiare come motore dei cambiamenti di un Paese. Anche della condizione femminile: c’erano le donne che salivano in montagna armate di tutto punto e non cucinavano per non riproporre il modello tradizionale e all’opposto le sfogline rimaste in pianura che rivendicavano invece con orgoglio l’atto rivoluzionario di cucinare per i partigiani combattenti. Per tutte e per tutti c’era comunque il desiderio di poter tornare alla vita normale, già a tavola. «I partigiani – spiegano Salvini e Carrara – mangiavano poco e male, la fame è uno sfondo grigio e uniforme. Riuscivano a procurarsi sempre le stesso cibo e dovevano mangiarne fino alla nausea, tanto che per riuscire a mandarlo giù dovevano immaginare altri sapori. Si cucinava poco, per non accendere fuochi e perché le marmitte erano poche. Spesso mancavano stoviglie e posate, si mangiava tutti insieme dallo stesso recipiente. E così sulle montagne, seduti di sera in un “cerchio affamato” il contadino a fianco del dottore, la donna di fianco all’uomo, il ciabattino e lo studentello, si sperimentava una prima forma di democrazia che scardinava canoni sociali e tradizioni». 
Si condivideva il pane e il destino dinanzi a piatti poveri in cui l’ingrediente più ricco erano le parole, spesso d’ironia «perché – come diceva a tavola Papà Cervi – per accettare la realtà e trovare una via d’uscita, bisogna saperne ridere».