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 2016  aprile 26 Martedì calendario

Lo scudetto della Juventus spiegato da Gianni Mura e Mario Sconcerti

Gianni Mura per la Repubblica
E cinque, di fila. Ieri la certezza dello scudetto, vinto per distacco a tre turni dalla fine. L’anno scorso, a quattro. Anche quando un campionato sembra destinato allo sprint, la Juve vince per distacco e l’avversario più ostinato, il Napoli, è pure costretto a guardarsi alle spalle dal ritorno della Roma. Sul merito non si può discutere. Sul più bello dei cinque sì, dai tifosi della Juve agli addetti ai lavori. C’è chi preferirà il primo della serie, perché era un certificato di ritorno alle passate grandezze, chi quello dei 102 punti, quota difficilmente superabile, chi questo, il secondo di Allegri. È di certo il meno previsto, specie dopo un avvio pessimo che dopo 10 giornate vedeva la Juve in zona–retrocessione. Poi, in cascina 73 punti in 25 partite, anche questi numeri sono difficilmente ripetibili e chiamano in causa Allegri e la società.
A fine ottobre, quanti presidenti avrebbero resistito alla tentazione di cacciare l’allenatore? Aveva quasi tutti contro: i numeri, ma anche la risorta diffidenza dei tifosi che l’aveva accolto il primo giorno e nell’ultimo giorno, vittorioso, aveva attribuito gran parte del merito a Conte: il quarto scudetto figlio del tremendismo dei primi tre. Anche se Allegri aveva cominciato bene (Supercoppa vinta con la Lazio), le due sconfitte iniziali in campionato e lo stentato cammino dei primi mesi erano colpa sua. Partiti Pirlo, Tevez e Vidal, nonché Llorente, era evidente che il tecnico non sapeva dove mettere le mani. Alla vox populi, solleticata da alcune testate inclini al populismo, la società ha avuto il merito di fare blocco intorno ad Allegri, che proprio scarso non era (uno scudetto, un secondo e un terzo posto al Milan e uno scudetto alla Juve) e lo avrebbe dimostrato. Per come lavora la sua struttura, da Agnelli a Marotta, a Paratici, competenze precise e nessuna invasione di campo, la Juve è in fuga ben oltre i suoi scudetti. La serie del quinquennio comincia con lo stadio di proprietà. Ora è chiaro che con uno stadio di proprietà e una squadra di brocchi non si vince nulla, com’è chiaro che uno stadio di proprietà consente alla Juve operazioni di marketing, merchandising e altro ancora che ingrassano le entrate. Sul mercato la Juve ha speso perché poteva spendere, non trovandosi nella situazione debitoria che condiziona le milanesi. A chi non capisce molto di calcio sembrava un ninnolo costoso Dybala. Invece, come Pogba a parametro zero, è stata un’ottima intuizione. Non è che in questi cinque anni la Juve abbia azzeccato tutto: qualche pedina (Elia, Bendnter, Anelka) l’ha pure sbagliata, ma attenzione: quando la Juve sbaglia, sbaglia meno degli altri.
La costante dei 5 scudetti è la miglior difesa: la Bbc regge, con qualche scricchiolio di Chiellini, e dietro a tutti c’è un Buffon che nel 2016 ha incassato solo 4 gol (due su rigore), che ha conquistato il primato d’imbattibilità e che sa essere capitano vero, non di facciata. Anche a Firenze ha salvato il risultato, due parate di piede, di puro istinto, che per reattività lo tengono lontano dalla pensione dei portieri. La difesa non è fatta dai soli difensori e la Juve, ci fosse Conte o Allegri, ha sempre chiesto a tutti di coprire. Anche a Tevez, anche a Dybala così bello da vedere, anche a Mandzukic meno bello ma utile. L’ha capito, dai e dai, pure Pogba, meno farfallone e più completo, molto cresciuto come uomo-squadra: 8 gol e 12 assist. La Juve del primo Conte era terza in Europa per possesso di palla, dietro a Barcellona e Bayern. Quella di Allegri è meno ossessiva, meno tarantolata ma sa quello che vuole e come ottenerlo. Può aggredire l’avversario o lasciargli l’iniziativa, aspettando un suo errore per ripartire in contropiede. Può giocare molto sulle fasce come cercare il lancio lungo al centro. Può restare fedele al 3-5-2 contiano anche se Allegri vede meglio il 4-3-1-2 che prima o poi, scommetto, diventerà galeonianamente il 4-3-3 che Allegri schierava a Cagliari.
Non è con un modulo che si spiegano cinque anni di scudetti. È soprattutto questione di uomini, di come vengono impiegati, di come li si motiva. La svolta è dopo la sconfitta col Sassuolo, con Buffon che parla di partita indecorosa. O nel tocco di Cuadrado che decide il derby nel recupero? O nel gol del panchinaro Zaza al Napoli? C’è solo l’imbarazzo della scelta. E c’è da sottolineare che con due allenatori la Juve ha vinto 5 scudetti. Altrove, senza arrivare agli eccessi di Palermo, hanno altre usanze. Basti pensare al Milan attuale, un punto col Carpi, zero col Verona. Cinque squadre si sono alternate in testa, non è stato un campionato noioso. Il Napoli fino a metà marzo ha espresso il calcio migliore ed è stato l’avversario più tenace. Non gli bastano i 30 gol di Higuain. Detto di sfuggita, in questi cinque anni il miglior goleador della Juve non era in cima alla classifica. A volte sono bastati i 10 gol di Matri, di Vidal. Quattro punti sul Milan, con l’ombra del gol di Muntari, il vantaggio più piccolo. Poi, 9 sul Napoli, 17 sulla Roma, ancora 17 sulla Roma, adesso sono 12 sul Napoli, un numero che pare mostruoso se rapportato alle distanze dopo 10 partite. Allora, il merito è di tutta la Juve e non è colpa sua se due avversarie tradizionali, Milan e Inter, si sono disciolte per strada. Vincere aiuta a vincere: non è da escludere che sul Napoli abbia pesato la pressione ambientale. Negli acquisti azzeccati non voglio dimenticare Khedira, Alex Sandro, Cuadrado, Rugani e pure Lemina, che ha fatto il suo, ma è l’abitudine a durare della Juve, la sua scorza e la sua anima, che ne fanno una grande squadra. Cresciuta anche in Europa. Qui Allegri ha fatto meglio di Conte e qui, con i rinforzi giusti, può ancora crescere.

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Mario Sconcerti per il Corriere della Sera
Ci sono due domande da farsi davanti a questo tipo scudetto: come abbia fatto la Juve a vincerlo in modo tanto grasso e perché alla fine da più di novant’anni vinca sempre la Juve. La prima risposta coinvolge soprattutto la società. Sono stati Agnelli, Marotta, Nedved e Paratici a costruire pezzo per pezzo una squadra fin troppo diversa, molto più giovane, praticamente inedita. Hanno avuto i dirigenti tra ottobre e metà novembre una vera crisi esistenziale, non esagero, perché tutto sembrava capovolgersi, poi è subentrata la squadra e soprattutto il disincanto di Allegri. Ha scelto di essere pratico, ha lasciato i giocatori a un gioco semplice, ha permesso alle qualità fisiche e tecniche di venir fuori e lasciare indietro tutti gli avversari. La Juve ha lunghe pause durante la partita, per niente casuali. Fa venire avanti gli avversari, dà loro l’illusione di essere in partita, poi colpisce. Sa di poter cambiare velocità quando vuole, con Pogba, Dybala, Cuadrado, gli stessi Khedira, Mandzukic e Morata. E sa di poter resistere a qualunque partita. Raramente è stata bellissima, quasi mai è stata insufficiente. Segnare almeno il necessario è diventato inevitabile per questa squadra molto pratica che ha preso in giro qualunque moda ed è rimasta ferma su un gioco pratico, quasi vecchio, ma portato alla modernità dalle differenze degli individui, soprattutto Pogba, Dybala, Bonucci e Buffon, ormai il miglior portiere di sempre. La seconda domanda, perché alla fine vince sempre la Juve, ha una risposta più articolata. Vince la Juve perché da novant’anni ha la stessa proprietà, la stessa famiglia alla guida, quindi una grande esperienza e un portafoglio in grado di sopportare i tempi. La continuità migliora tutti e non lascia alibi ai giocatori. Sei in mezzo al meglio e te lo devi meritare. Questo spiega perché quasi qualunque giocatore, anche il più eccentrico, diventi alla Juve qualcosa di diverso, improvvisamente placato e saggio. Perché oltre la Juve non c’è niente, se non te ne accorgi non sei da Juve. La crisi di Milano conferma. Milan e Inter sono stati i migliori con una sola guida, i Moratti e Berlusconi. Le difficoltà di adesso, sono le difficoltà della fine di un regno familiare. La Juve infine non ha una città alle spalle, una piazza che chieda continuamente spiegazioni. Ha il sentimento algido di una grande azienda, si può far solo quello che serve, senza dare spiegazioni al popolo. Questo le ha permesso di potersi tenere Allegri quando nessun tifoso lo voleva più, di scegliere addii non meno importanti di quello di Totti (Del Piero, Conte, Pirlo). La Juve è sempre presente, ma lontana, nessuno arriva a toccarla. Un ultimo dato che chiude il cerchio: la Juve è l’unica società ad avere un presidente operativo, una proprietà dentro le cose a tempo pieno. Può sbagliare, ma sai sempre di chi è la faccia. Questo non permette equivoci. La Juve, in sostanza, è l’unica società più forte della propria gente. E nell’epoca dei social questo pesa ancora di più.