La Stampa, 26 aprile 2016
Cosa fu la repubblica dell’Ossola
«Dobbiamo esserci, è un nostro dovere. Per quelli che non ci sono più e per i giovani, per quelli che non sanno cosa è stata la Resistenza, la lotta che ha portato alla liberazione e alla democrazia che respirano ogni giorno». Franco Sgrena, 90 anni, venerdì pomeriggio era in prima fila all’evento che ha aperto le celebrazioni del 25 Aprile a Domodossola. È stato tra i primi partigiani a entrare a Milano e con altri si è dato da fare per evitare che la rabbia della folla si accanisse ancora di più contro i cadaveri di Mussolini, Petacci e gerarchi: «Li abbiamo attaccati sul distributore, ho aiutato anch’io, ma ne abbiamo attaccati solo sette e prima li abbiamo lavati perché facevano pietà, tra sputate e il resto». Settantuno anni fa quella data segnò la fine dell’occupazione nazifascista, ma allora l’Ossola aveva già sperimentato la sua liberazione tra il 9 settembre e il 22 ottobre 1944: i quaranta giorni della «repubblica» che fecero conoscere al mondo questo lembo di Piemonte. Nel 1944 c’erano già stati altri territori liberati, ma qui si realizzò qualcosa di unico. Gli sforzi militari delle divisioni partigiane che a caro prezzo riconquistarono la valle del Toce lasciarono il posto a una straordinaria esperienza civile. Domodossola con le sue valli non era soltanto un «territorio liberato» ma – nei fatti – una piccola vera «repubblica» anche se questo termine per la prima volta in assoluto fu usato dal comando tedesco (a rioccupazione avvenuta) quando il podestà chiedeva notizie di una macchina per scrivere sparita: l’invito era a rivolgersi a quella «repubblica di banditi» che era passata prima di loro.
Per la storia era l’11 settembre 1944 quando si insediò la «Giunta provvisoria di governo» nominata dal comando militare dell’Ossola assumendosi «l’amministrazione e la gestione civile dei territori liberati». A presiederla Ettore Tibaldi, affiancato dal sacerdote Luigi Zoppetti, dal comunista Giacomo Roberti (poi sostituti da don Gaudenzio Cabalà ed Emilio Colombo), dall’indipendente Giorgio Ballarini e dal liberale Alberto Nobili. In giunta anche il socialista Mario Bonfantini, l’azionista Severino Cristofoli, il democristiano Natale Menotti e la comunista Gisella Floreanini. Una donna, la prima ministro d’Italia quando il voto era riservato solo all’universo maschile. Oggi si parla di un’Europa aperta era quella sognata in quei quaranta giorni. La Giunta, oltre alle gestione delle incombenze quotidiane, pensò subito in grande: dalla libertà di una stampa che per 20 anni era stata imbavagliata ai rapporti da intrattenere con la Svizzera che poi – con la rioccupazione nazifascista – accolse e mise in salvo 2.500 bambini dai 5 ai 13 anni.
E poi la scuola: la commissione composta anche dal filologo domese Gianfranco Contini chiese subito di riordinarla secondo un programma «ideale e pratico». Altro capitolo straordinario, quello della giustizia: fu affidata all’avvocato Ezio Vigorelli che, nonostante due figli uccisi nel rastrellamento in Valgrande, non acconsentì a vendette. Gianfranco Fradelizio aveva 4 mesi il 30 giugno ’44 quando suo papà Luigi, partigiano, fu ucciso in valle Antigorio. Oggi è presidente dell’Anpi di Domodossola. Anche per lui la vendetta non merita di entrare nella storia. «Merita invece l’esempio dei quella repubblica che dovrebbe essere presa d’esempio dalla politica di oggi». «Eppure ci sono stati anni – aggiunge Luigi Fovanna, nome di battaglia “Topolino”, classe 1929 – in cui si parlava poco della nostra Resistenza. Qualcosa è cambiato, ma non dobbiamo abbassare la guardia».