La Gazzetta dello Sport, 25 aprile 2016
I giornali si sforzano di ricordare che il 25 aprile è una data importante, nell’indifferenza generale dei politici e dei cittadini, i quali forse partecipano a qualche cerimonia ma solo per dovere

I giornali si sforzano di ricordare che il 25 aprile è una data importante, nell’indifferenza generale dei politici e dei cittadini, i quali forse partecipano a qualche cerimonia ma solo per dovere. Un dovere che sappiamo annoiato, come quello di tanti cattolici che vanno a messa solo per farsi vedere e in genere pensando ad altro.
• Stiamo parlando della Liberazione.
Naturalmente. 25 aprile 1945. Liberazione dal fascismo. Col vergognoso epilogo di piazzale Loreto, cioè di Mussolini, la Petacci e di un po’ di gerarchi appesi a testa in giù in piazzale Loreto a Milano, e gli italiani, adoranti fino a poco prima, che gli pisciano e gli sputano addosso. Sono passati 71 anni e questa data del 25 aprile ci divide ancora. Il sindaco di Corsico ha fatto la lista delle canzoni eseguibili durante la festa ufficiale di oggi e ha escluso Bella ciao, che tra l’altro è ormai diventato un canto mondiale, come spiega bene il bel libretto appena uscito di Carlo Pestelli, che ne rifà la storia (Bella ciao/ La canzone della libertà, Add Edizioni). La lista dei canti ammessi è: “La leggenda del Piave”, “Valsesia”, “La ritirata” (inno dei marinai), “33” (inno degli alpini), “Sventola il tricolore”, “La bandiera dei tre colori”. A parte Valsesia, che è comunque di derivazione dannunziana, nessuna di queste canzoni, a rigore, ha a che vedere con la Seconda guerra mondiale. Perché, forse al comune di Corsico non lo sanno, si tratta in questo caso della Seconda guerra mondiale.
• Dipende dal fatto che nel dopoguerra i comunisti hanno preteso di monopolizzare sia la Resistenza che le celebrazioni del 25 aprile. Alla spaccatura del Paese, per quanto possa sembrare assurdo, hanno dato un forte contributo anche loro.
Sì, con la pretesa che esistesse una parte giusta e una parte sbagliata, fino al punto estremo di aver creduto, neanche troppo tempo fa, che i cittadini di destra fossero inferiori ai cittadini di sinistra (tesi dichiarata esplicitamente da Paolo Flores d’Arcais). Berlusconi, quando era presidente del Consiglio, cercò di far diventare la Liberazione una festa di tutti, presentandosi a Onna (l’epicentro del terremoto d’Abruzzo) col fazzoletto tricolore al collo. Tutto inutile. Anzi, forse la situazione da allora è peggiorata. Del 25 aprile non frega niente a nessuno. Marco Cianca, nel suo pezzo di ieri sul Corriere, ha ricordato alcune parole di Norberto Bobbio: «Il messaggio che ci hanno lasciato i caduti in quei bellissimi documenti che sono le lettere dei condannati a morte della Resistenza, era un messaggio di fede in una riforma della società nella libertà, nella dignità, nella giustizia, nell’odio per i soprusi, nell’amore dei poveri e degli oppressi. Che cosa ne abbiamo fatto di questo messaggio? Abbiamo davanti a noi un’Italia senza fede, incredula, come sempre, in cui dilaga la corruzione, la sfiducia negli ideali, la rassegnazione di fronte al fatto compiuto, la furberia e lo spirito di sopraffazione del più forte sul più debole. Non sono morti per questo coloro che oggi commemoriamo». È un discorso del 25 aprile 1961.
• Il Corriere ha distribuito il libro di Cazzullo.
Sì. Si intitola Possa il mio sangue servire, l’ha pubblicato Rizzoli l’anno scorso. Il capitano Falco Balbis, poco prima di essere fucilato, scrive al padre: «Possa il mio sangue servire per ricostruire l’unità italiana e per riportare la nostra terra a essere onorata e stimata nel mondo intero». Cazzullo ci ha fatto il titolo del suo saggio. Racconta anche di un capitano dell’esercito italiano, Giuseppe De Toni, finito nel lager di Hammerstein per non aver voluto combattere altri italiani aderendo a Salò (ultimo rifugio dei fascisti), il quale scrive di essere pronto «a sacrificare tutto per un’Italia rispettata, onorata». Cazzullo vorrebbe che questa e altre frasi di questi nostri padri eroici e dimenticati fossero fatte recitare a ogni eletto in Parlamento. Nelle stesse condizioni di De Toni c’erano altri 600 mila italiani. I soldati italiani morti dopo l’8 settembre del 1943 - quando venne firmato l’armistizio con gli Alleati - furono 89 mila.
• Che altro hanno fatto i giornali per ricordare il 25 aprile?
Repubblica ha scoperto il nome della ragazza la cui foto è diventata il simbolo della Liberazione. Scattata da Federico Patellani. La signora si chiamava Anna Iberti e non ha mai voluto che il suo nome venisse fuori. Gli italiani di un tempo sapevano essere discreti. Il Fatto ha elencato i dieci luoghi della Resistenza in cui andare a rendere omaggio ai caduti, per chi ne ha voglia: il sacrario di Fondotoce, il parco di Monte Sole a Marzabotto, il museo di via Tasso e le Fosse Ardeatine a Roma, la Risiera di San Sabba, la Casa della Memoria a Milano, il Parco a Sant’Anna di Stazzema, il Campo di Fossoli, la Casa Cervi a Gattatico, il Sentiero della Libertà in Abruzzo. Sono posti - scrive Il Fatto - in cui varrà la pena di cantare “Bella ciao”.
• A proposito di Bella ciao, stava dicendo di questo libro che ne ricostruisce la storia.
Sì, il libro di Pestelli, docente di linguistica, musicologo e cantautore. Pestelli racconta che il nostro canto partigiano è diventato un inno mondiale, ne esistono versioni in curdo, in turco, in esperanto, in polacco. Del resto, lo sapevamo: l’abbiamo sentito eseguire anche l’anno scorso, nella cerimonia che i francesi hanno dedicato alle vittime di Charlie Hebdo. Pestelli, alludendo alla commozione che ci prende ogni volta che sentiamo levarsi quelle note cariche di tristezza - una faccenda che si chiama “poesia” - sa che ci vuole un momento di sorriso e cita una frase di Troisi tratta dal Postino di Neruda. La citiamo pure noi, per risollevarci lo spirito alla fine di un pezzo tanto malinconico: «La poesia non è di chi la scrive. Ma di chi gli serve».