Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  aprile 24 Domenica calendario

Storia delle altre foto icona

Quella ragazza che scavalca le barricate impugnando il tricolore non si lamentò mai con Eugène Delacroix per averla dipinta coi seni al vento, perché lei esiste solo lì, sulla tela, non è una persona, è un ideale, è “La libertà che guida il popolo” e nient’altro. Ma se ci provi con le fotografie, a trasformare un volto reale in un concetto astratto, a volte succedono cose strane. Come accadde a Dorothea Lange con una delle foto più famose del Novecento, la “Madre migrante”, una donna incontrata nel marzo 1936, accampata sulle strade del grande esodo steinbeckiano, la Madonna della Grande Depressione, assurta a icona della Dignità nella Miseria: che però esisteva davvero nella realtà (non sarebbe stata una fotografia, altrimenti), e aveva un nome, Florence Owens Thompson; la sua condizione non era così disperata, e per tutta la sua lunga vita rimase assai contrariata per essere diventata un simbolo di povertà e disperazione.
L’universale e l’individuale, la Storia e le storie. Non c’è fotoreporter che non ci provi, a far uscire le proprie immagini dal contingente per lanciarle nel cielo delle icone (e magari nel medagliere di qualche premio fotogiornalistico). Ma nel tragitto si perde sempre qualcosa. Il fotografo algerino della France Presse Hocine Zaourar colse l’icona del Dolore Assoluto il 23 settembre del 1997 nell’ospedale di Zmirli, dove una donna piangeva il massacro della sua famiglia per mano degli islamisti: immagine finita dritta sul podio del World Press Photo come la “Madonna di Bentalha”, per ritrovarsi portata in tribunale dalla donna in carne e ossa che se ne ritenne diffamata.
Il pathos ideale delle foto-icone è ingombrante, è pesante, sovrasta e a volte schiaccia l’ethos della vita vera di chi ne fu il modello. Nulla sappiamo di chi fosse l’italiana con i tre figli e le povere cose che Jacob Riis incontrò a Ellis Island nel 1905 e rifuse nell’immagine dell’Eterno Emigrante; ma il “Bimbo di Varsavia”, il piccolo ebreo con le mani in alto fotografato dagli sgherri del generate Stroop durante la distruzione del ghetto, emblema dell’Innocenza Calpestata dal Male Assoluto, fu identificato molti anni dopo in Tsvi Nussbaum, otorinolaringoiatra di New York: che si sentì allora rimproverare di essere sopravvissuto e di aver raffreddato le calde lacrime che il martirio di quel bambino iconico aveva fatto spargere a milioni di persone.
E Kim Phúc, la bambina vietnamita con la schiena arsa dal Napalm? Da grande fuggì in Canada dal suo paese dove il regime l’aveva ridotta alla copia vivente di una foto-bandiera. Invece i genitori di Tomoko, bimba giapponese nata focomelica per colpa di un disastro ecologico, protagonista di una commovente immagine di W. Eugene Smith, ottennero dagli eredi del fotografo di vietarne ogni ulteriore pubblicazione. A Steve McCurry andò meglio con la sua “Afghan Girl” dagli occhi verdi spiritati e folgoranti: la ritrovò dopo diciassette anni e lei accettò di farsi replicare in icona, in cambio di una macchina per cucire, del denaro per le cure mediche e un pellegrinaggio alla Mecca.
Per evitare certi burrascosi ritorni dell’icona nella realtà, con la irritata riapparizione del Referente in carne e ossa, alcuni fotografi hanno scelto di produrre icone premeditate, ricorrendo a modelli più o meno professionali, che possono e devono scomparire per sempre dalla realtà, come un attore abbandona il personaggio quando esce dal palcoscenico. Ed ecco la nostra Repubblica incarnata, giovane e sorridente, inventata con garbo e geniale mestiere da Federico Patellani, rimasta diligentemente senza nome fino a oggi.
Ma la storia non sa tenere i suoi segreti. Erano attori, pagati, quei due ragazzi che si baciavano appassionatamente in rue de Rivoli, Doisneau non li aveva affatto sorpresi al volo (come invece garantì “Life” ai suoi lettori pubblicando il servizio nel 1950); ma fu costretto a mostrare la ricevuta solo molti anni dopo, quando un’altra coppia che pretendeva di essersi riconosciuta gli fece causa per risarcimento. Non c’è niente da fare, prima o poi quel granello di reale che c’è in ogni foto, anche la più ideale, vola e ti finisce nell’occhio.