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 2016  aprile 23 Sabato calendario

Quanto vibra il telefonino di Paolo Genovese, il regista italiano del momento. Intervista

Il telefono è sul tavolo e vibra di continuo, ma dopo una settimana di premi ci sono pochi segreti nei messaggi di Paolo Genovese, il regista che ha spiazzato mercato e critica.
Il suo Perfetti sconosciuti ha vinto il David di Donatello, il Tribeca Film Festival e, come dice lui, «cammina perché è un film social, è diventato altro da sé, vive nei dibattiti su Twitter e Facebook dove tutti si chiedono cosa succederebbe se lasciassero il proprio cellulare al compagno». Nel dehors del Settembrini di Roma, locale di riferimento per il cinema italiano, la domanda è un’altra. È un’orgia di complimenti e pacche sulle spalle. Attori, produttori, amici e la parola d’ordine è una sola: «Finalmente una commedia».
Nel 2016 mancano ancora i quarti di nobiltà al genere?
«C’è un pregiudizio, escono settanta commedie l’anno e la media qualitativa non può essere alta, molte sono fast food. Da noi la commedia è la Nutella: va bene, ma non è la gianduia raffinata. Pensare che a New York hanno definito il mio film “Dramedy”».
Crede di piacere perché gira film poco italiani?
«Quando vogliono farmi un complimento dicono: “Sembra una commedia francese”; oppure: “Somiglia a una sceneggiatura americana”, io preferirei: “Ricorda la commedia all’italiana”. Come Risi, Scola, il primo Salvatores o il Virzì degli esordi».
Dopo questi autori però c’è stato un buco.
«C’è stato un periodo in cui ci siamo appiattiti. Siamo passati da maestri ad artigiani, eravamo troppo preoccupati di quel che voleva il pubblico. Siamo andati su richiesta».
Colpa dei cinepanettoni?
«No, c’è una grossa confusione tra comico e commedia. I cinepanettoni sono distrazione pura: se De Sica e la Ferilli si mettono insieme o si lasciano non frega nulla a nessuno, li guardi per farti sane risate. Nella commedia ci si immedesima, si tifa».
L’effetto Zalone lo spiega così?
«Lui è fuori da qualunque schema. Zalone è come Sanremo, intercetta la massa che non va al cinema abitualmente, è un fenomeno popolare».
Lavorerebbe con Zalone?
«No, non sarei capace. Ci vuole rispetto. Per esempio, per me Neri Parenti è un genio: la cifra del comico ha regole precise che devi conoscere».
Torniamo al buco. Come ne è uscito con le sue commedie?
«Tutto il cinema si attacca alle radici e poi ha bisogno di sradicarle. Il neorealismo si oppone al cinema di regime. La commedia italiana è una reazione al cinema di strada. Hanno pensato: va bene, siamo dei disgraziati, ma ridiamoci su».
E la sua generazione da che si è staccata?
«Siamo molto meno politicizzati. Se c’era una manifestazione davanti alla Fiat loro montavano in treno e si mischiavano agli operai. Noi no, ma manteniamo gli intenti: raccontare la società nel profondo in modo lieve».
Però nei suoi film si resta «dei disgraziati su cui ridere».
«Sì, anche se con un’ironia nuova. Noi non abbiamo fatto il ‘68 né il ‘77, dipingere simpatici disgraziati è la nostra cifra. Più sociali e meno politici».
Cioè vi guardate più addosso?
«Raccontiamo il mondo attraverso le persone, non le persone attraverso una situazione data, così i personaggi sono costretti a prendersi più responsabilità».
Come recluta un attore?
«All’inizio facevo trafile infinite fra agenti e filtri per poi strappare qualche minuto in cui presentare un copione e sperare. Ora li chiamo davanti a un caffè e racconto la storia».
Primo nome ingaggiato?
«Marina Confalone per Incantesimo napoletano. Appuntamento a Napoli, in un posto assurdo ai Quartieri spagnoli, un buchetto in cui si entrava dai vicoli e già metteva soggezione. Lei dice: “Il film è divertentissimo, pensavo fossi anche tu spiritoso”. Io paralizzato».
Un attore che le ha detto no?
«Chiamai Mastandrea per il primo Immaturi, poi l’ho recuperato. Ma quello era un film da porte in faccia. Me lo hanno rifiutato per cinque anni, è diventato un successo incredibile».
Dalla terrazza di Perfetti sconosciuti a quella di La grande bellezza. Stessa città, ma è la stessa Italia?
«Sono due modi diversi di raccontare, ma sì, è la stessa Italia: i personaggi hanno in comune meschinità e contraddizioni».
Siamo così miseri?
«Non voglio sembrare cinico. Una parte di noi è misera, l’altra magnifica. Immaturi celebra l’amicizia. Perfetti sconosciuti sonda il lato sommerso».
Il finale che riavvolge il film salva le coppie di traditori?
«Li condanna. Se si fossero lasciati avrebbero potuto espiare invece stanno lì e costringono lo spettatore a farsi domande. Le coppie non esplodono nello schermo, ma in mezzo al pubblico. È come quando il serial killer rimane in libertà».
Ha chiesto il telefono di sua moglie?
«Per carità, non voglio vederlo».
Ci sono pezzi della sua vita nella sceneggiatura?
«Parte dalla realtà. Da un amico avvocato che ha avuto un incidente in moto, la moglie ha recuperato il cellulare. Sono arrivati all’ospedale già da separati».
Questa però non è la sua vita.
«Non posso usare dettagli troppo personali, si rischia l’effetto filmino vacanza. Magari mi fisso su un particolare che mi sembra fondamentale solo perché è legato a un’emozione».
Chi c’è in fila per comprare «Perfetti sconosciuti».
«Tanti, soprattutto negli Usa. Eppure è la scoperta dell’acqua calda: quello che ci accomuna in ogni parte del mondo è passare il tempo incollati allo smartphone».
II suo ideale cast americano?
«Anne Hathaway nel ruolo di Alba Rohrwacher, Bradley Cooper come Edoardo Leo, John Turturro nel ruolo di Mastandrea e Jennifer Aniston per la parte di Kasia Smutniak».
Lei è il regista degli spot di Totti. Come vive questo addio travagliato?
«Sono della Lazio quindi già è travagliato girare con la Roma. Scherzo. Mi dispiace vedere Totti in mezzo a questa contesa. Alla fine l’immagine si sporca, si macchia. In Italia abbiamo pochi miti, calcisticamente lui è l’ultimo rimasto, è come Mastroianni per il cinema. Ma l’Italia fatica a rispettare i miti».