la Repubblica, 23 aprile 2016
Il problema dei titoli di Stato nei bilanci delle banche, domande e risposte per capirne di più
Nella riunione dei ministri Ue dell’Economia e delle Finanze tenutasi ieri ad Amsterdam, si è discusso di una proposta olandese volta a limitare la quantità di titoli di Stato presenti nei bilanci delle banche. L’Italia si è sempre detta contraria, con il premier Matteo Renzi che ha minacciato di porre un veto su ipotesi di questo tipo.
Quanti titoli di Stato ci sono nei bilanci delle banche europee?
Le statistiche della Banca centrale europea mostrano che a febbraio le banche dell’eurozona avevano a bilancio obbligazioni governative per oltre 1850 miliardi di euro. Di questi, quasi 1350 miliardi sono titoli di Stato domestici, ovvero emessi dallo Stato in cui la banca ha il suo quartier generale. Nel caso italiano, la cifra complessiva è pari a più di 450 miliardi di euro, 420 dei quali sono buoni del Tesoro. In confronto al totale dei loro attivi, le banche italiane hanno molti più titoli di stato rispetto a gli altri Paesi dell’area euro: intorno all’11%, circa il doppio della media dell’eurozona.
Perché le banche italiane hanno comprato così tanti buoni del Tesoro?
La risposta va ricercata in parte nella crisi del debito sovrano che alcuni anni fa ha colpito diversi Paesi dell’eurozona, tra cui l’Italia. In quella fase, le banche italiane si sono fatte carico di prestare soldi al nostro governo, visto che gli investitori stranieri si tirarono indietro temendo un default. I buoni del Tesoro hanno poi garantito dei discreti rendimenti, anche perchè le banche potevano ricevere denaro dalla Bce a tassi molto vicini allo zero. Infine, i titoli di Stato hanno tradizionalmente goduto di un trattamento privilegiato dal punto di vista della regolamentazione bancaria. Gli istituti di credito dell’eurozona possono considerare le obbligazioni sovrane emessi fagli Stati membri dell’unione monetaria prive di rischio, evitando così di dover impegnare parte del loro capitale come debbono fare quando prestano alle imprese o alle famiglie.
Perché alcuni governi, come l’Olanda, la Germania e la Finlandia, vogliono allora porre dei limiti a questa prassi?
La crisi dell’eurozona, e in particolare la ristrutturazione del debito greco, hanno dimostrato che i titoli di Stato non sono privi di rischio: anche all’interno dell’area euro, i governi possono fare default. La Germania e i suoi alleati sono preoccupati per le ripercussioni che una crisi del debito sovrano potrebbe avere su banche così piene di obbligazioni governative, creando dei buchi nei loro bilanci. Berlino considera limiti di questo tipo un passo necessario prima di avviare un processo di condivisione dei rischi del sistema bancario, come la creazione di una garanzia comune dei depositi, che utilizzerebbe risorse europee e non più nazionali per ripagare i correntisti di una banca in difficoltà. C’è poi un’ultima considerazione: il trattamento regolatorio esistente può spingere le banche a prestare ai governi invece di finanziare gli investimenti privati.
Perché il governo italiano si oppone così duramente all’idea?
La paura di Palazzo Chigi, condivisa dalla Banca d’Italia, è che l’imposizione rapida di questi limiti possa spingere le banche a vendere immediatamente gran parte dei loro bond sovrani. Il rischio è che questa marea di titoli sia difficile da collocare sul mercato, facendo schizzare in alto i rendimenti e causando, potenzialmente, una nuova crisi del debito. Anche un periodo di transizione troppo breve avrebbe conseguenze negative, poichè gli investitori anticiperebbero i rischi in arrivo e penalizzerebbero comunque le banche più esposte.
Qual è la probabilità che questi limiti vengano effettivamente attuati?
Alla riunione di ieri la proposta olandese è stata respinta. È dunque probabile che la discussione continui principalmente a livello globale, nel Comitato di Basilea sulla regolamentazione bancaria, con tempi molto più lunghi. Questo rallentamento potrebbe però avere un costo: sarà più difficile ottenere la garanzia comune dei depositi, che l’Italia, ma anche la Bce, ritengono necessaria per completare l’ unione bancaria e mettere in sicurezza i sistemi del credito più deboli.