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 2016  aprile 22 Venerdì calendario

«Quando vai via?». Paolo Nori e la teoria dello straniamento di Šklovskijin

Questa settimana mi hanno invitato a Milano, al Teatro Franco Parenti, per presentare un libro di uno scrittore svedese che si chiama Fredrik Sjöberg; siccome io non so lo svedese, né nessun altra lingua scandinava, era abbastanza misterioso il motivo per cui avevano invitato me a presentarlo, forse come critico letterario, ho pensato. Sjöberg, che è nato nel 1958, è un appassionato collezionista di mosche, e il libro che ho mi hanno chiesto di presentare si intitola L’arte di collezionare mosche (Iperborea).
Ho cominciato dicendo che, come critico letterario, io sono un vetero-formalista, cioè uno che la teoria che l’ha più impressionato, tra tutte le teorie della letteratura che ha letto, è la teoria dello straniamento, che è stata enunciata da un critico russo che si chiama Viktor Šklovskijin un articolo intitolato L’arte come procedimento, che è stato pubblicato per la prima volta nel 1917, che, mi sono accorto, sono 99 anni che è uscito, e che l’anno prossimo, 2017, sarà il centenario dello straniamento, oltre che il centenario di un altro avvenimento coevo che si chiama Rivoluzione russa, ho pensato. Questa teoria dello straniamento, ho detto, dice in sostanza che gli scrittori, quando descrivono una cosa, devono sforzarsi di guardarla come se la vedessero perla prima volta, e ha una serie di corollari, questa teoria formalista, tra i quali la convinzione che per trasmettere un contenuto nuovo ci vuole una forma nuova, e che per scrivere un nuovo romanzo bisogna, prima di tutto, non scrivere un romanzo vecchio. Nel 1927, infatti, dieci anni dopo quel primo articolo, e dieci anni dopo la rivoluzione russa, quello stesso critico, Šklovskij, si era chiesto cos’era cambiato nella letteratura russa che, in quei dieci anni, era diventata letteratura sovietica, e aveva provato a fare un’analisi della letteratura per l’infanzia prerivoluzionaria e della letteratura per l’infanzia postrivoluzionaria, e aveva trovato che nella letteratura per l’infanzia prerivoluzionaria la trama di solito era questa: c’era un bambino di umili origini che, nel corso del romanzo, compiva delle imprese straordinarie, alla fine si capiva che quel bambino era di origini nobili; nella letteratura per l’infanzia postrivoluzionaria la trama era questa: c’era un bambino di origini nobili che, nel corso del romanzo, compiva delle imprese straordinarie, alla fine si capiva che quel bambino era di origini umili (proletarie).
La scoperta di Šklovskij, per come la capisco io, era che questi romanzi eran lo stesso romanzo.
Una cosa che mi è piaciuta, del libro di Sjöberg, è il fatto che, dovendo parlare di una cosa così strana come la caccia alle mosche, il suo libro è fatto a mano, con una forma nuova attraverso la quale saltano fuori dei contenuti nuovi, per esempio il senso di vivere in un’isola (Sjöberg abita, e caccia le mosche, in un’isola di 15 km quadrati), dove la limitazione, nel tempo e nello spazio, aiuta a definire le cose «“Quando vai via?”. Era sempre la prima domanda che i bambini facevano a chi veniva a trovarci. Solo dopo erano pronti a fare conoscenza» (la traduzione è di Fulvio Ferrari). Che siccome, un po’, viviamo tutti su un’isola, ho pensato che si potrebbe usarlo anche noi, tutti i giorni, come prima cosa, quando ci si conosce: invece di «Piacere», «Quando vai via?». E poi fare conoscenza.