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 2016  aprile 22 Venerdì calendario

Libia, Onu e Isis. Il generale Mini ci spiega perché l’unico nodo da sciogliere è l’Egitto

Qualche giorno fa, il generale Paolo Serra, consigliere militare del rappresentante dell’Onu per la Libia Martin Kobler, e quindi italiano “prestato” alle Nazioni Unite, ha tenuto due audizioni presso le nostre commissioni parlamentari. Di fronte a onorevoli e senatori ha illustrato il caso e le possibili conseguenze della situazione in Libia. È stato chiaro, pacato, sereno ma non superficiale, conscio di ciò di cui si occupa ma non preoccupato, positivo, ma non ottimista a vanvera.
Di fronte a uditori interessati a sapere quanti barconi di migranti arriveranno dalla Libia o di quando partire in armi col tricolore a tracolla verso il “suol d’amor”, Serra ha fatto presente che: la situazione libica è disastrosa, un intervento internazionale si dovrà articolare e declinare in molti aspetti politici e tecnici che nessuno ha finora valutato, la Libia deve avere un governo di accordo nazionale, questo governo deve chiedere l’intervento internazionale, l’intervento deve essere di sostegno e supporto anche nella sicurezza, ma delle azioni di forza si devono occupare i libici e la forza libica, tutta da costituire, deve essere dotata di mezzi tecnologici avanzati per il controllo dei flussi.
In ogni caso Serra ha precisato di non essere in Libia come futuro comandante di una missione militare, ma come vero tecnico della sicurezza e quindi non meraviglia che abbia parlato più di aspetti politici, demografici e sociali che di bombe e cannoni.
Tra i nodi da sciogliere c’è la questione del generale Haftar che Bengasi e l’Egitto vorrebbero nel governo non solo per spartirsi la torta. Per i migranti c’è la questione del controllo dei campi rifugiati, gestiti da milizie e banditi, e dei flussi che partono sia dalla Libia sia dall’Egitto. Le armi di Tobruk partono dall’Egitto e anche l’opposizione a Tripoli parte da lì. In sostanza il principale nodo da sciogliere, e non solo, è l’Egitto. Serra non l’ha detto, ma non ce n’era bisogno. Da tempo ci siamo resi conto che questo paese non partecipa ai processi di stabilizzazione, ma persegue interessi solo nazionali.
Dai templi dei diritti umani il presidente Al Sisi fa sapere che le norme valide per il mondo non devono valere per l’Egitto; sul piano bilaterale critica l’Italia perché si straccia le vesti “per un caso isolato”; finge di collaborare con l’Europa comprando armi dalla Francia, ma in realtà tende con quattro lire a dividere sia europei che americani da Europa e Russia.
Il caso Regeni non è affatto isolato e proprio sui diritti umani l’Egitto appare in nuova luce anche all’autorevole Colum Lynch di Foreign Policy: l’Egitto si è reso più aggressivo e intransigente sul piano internazionale da 4 mesi: vale a dire da quando ha assunto la presidenza di turno del Consiglio di Sicurezza Onu, ente da cui dipendono tutte le missioni internazionali e le principali decisioni sulla sicurezza globale. L’organo da cui dipendono anche Kobler e Serra.
L’Egitto è dotato di un servizio diplomatico che è ritenuto il migliore del mondo arabo. I diplomatici egiziani conoscono benissimo tutte le procedure della burocrazia Onu e le usano al meglio. Di fatto influenzano le decisioni sovranazionali con i trucchi procedurali. L’Egitto è in grado di ostacolare il lavoro del Consiglio su qualsiasi argomento che lo tocchi da vicino. Prima ancora di assumere il turno di presidenza, l’Egitto aveva dichiarato di voler perseguire i propri interessi nazionali anche a costo di contrastare i piani delle grandi potenze.
La strategia egiziana studiata per il periodo (2 anni) di presidenza del Consiglio tende a riproporre il paese come “normalizzato” e nuovamente protagonista sulla scena globale. Le posizioni ostruzionistiche sono rivolte essenzialmente contro le grandi potenze. In verità l’Egitto trae spunto dagli stessi argomenti sostenuti dalla maggior parte dei membri Onu, con un tocco di naturale arroganza. Si oppone all’interventismo armato Usa perché produce solo guai, vuole limitare le garanzie umanitarie per combattere estremismo e terrorismo, si oppone alle sanzioni internazionali perché “difficili da implementare”. In realtà vuole libertà d’azione militare (come fa in Libia), vuole limitare l’attivismo di oppositori interni e internazionali e cerca spazio di potere nel ruolo di mediazione. Da 4 mesi non sta facendo altro.
Quando Samantha Power, ambasciatore Usa all’Onu, sollecitò il voto dell’assemblea su una risoluzione che prevedesse l’espulsione dell’intero contingente nazionale nel caso in cui alcuni suoi membri responsabili di abusi sessuali non fossero puniti dai rispettivi stati, l’Egitto disse che si trattava di una punizione collettiva. Con il pretesto che il provvedimento avrebbe minato il morale dei peacekeeper, presentò emendamenti che di fatto portavano a nulla. L’Egitto ha dimenticato che quando tali abusi furono perpetrati in Somalia, un paese serio come il Canada ritirò il contingente e sciolse il reggimento paracadutisti. Nessuno lo accusò di punizione collettiva, ma lo definì “civile”.
La Power ha commentato l’atteggiamento ammettendo che l’Egitto deve affrontare sfide alla propria sicurezza reali e molto gravi. Tuttavia, “la repressione degli islamisti, dei media indipendenti e della società civile anche apolitica, supera di molto le necessità di affrontare tali sfide. Queste azioni indicano un governo profondamente insofferente non solo verso il dissenso ma nei riguardi di ogni attività non direttamente gestita o controllata dallo stato”. La Power ha aggiunto che l’Egitto ha riaperto le indagini su 150 attivisti di diritti umani. Gli staff di tali ong sono stati sottoposti a minacce e interrogatori, gli è stato proibito di viaggiare all’estero e sono stati diffamati dai media di Stato.
L’Egitto sta dimostrando la propria bravura diplomatica e la capacità di sfruttare debolezze e ipocrisie altrui. Ma con tali premesse la soluzione libica, la verità su Regeni o qualsiasi altra cosa che non piaccia all’Egitto avrà vita dura. Lo sappiano coloro che vorrebbero vivacchiare all’ombra delle piramidi o sperare nell’Onu, almeno per i prossimi due anni.