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 2016  aprile 22 Venerdì calendario

Anche gli sceicchi arabi dovranno fare il 730. Ecco cosa prevede la spending review saudita

I cittadini sauditi non hanno idea di che forma abbia un 730, o qualsiasi cartella esattoriale. Non hanno infatti mai pagato tasse. Ancora per poco. Nel regno appoggiato su enormi riserve petrolifere, anni di prezzi del barile oltre i cento dollari hanno creato un’economia basata su sussidi energetici e libera da imposte. Poi, è arrivata l’era del greggio a 30-40 dollari. E il deficit dell’Arabia Saudita è cresciuto nel 2015 fino al 15 per cento del Pil. 
Per Riad è arrivata l’ora di correre ai ripari. Il National Transformation Program sarà presentato lunedì e sarà attivo dopo un mese. Si tratta di un ambizioso programma di riforme con un obiettivo: sganciare l’economia del regno dalla dipendenza dal greggio. 
L’impatto immediato sulla popolazione arriva sotto forma di tasse. Per ora, nulla a che vedere con il carico di imposte europeo. In diversi Paesi del Golfo, non soltanto in Arabia Saudita, sarà introdotta entro il 2018 l’Iva. Nel regno, dice Cinzia Bianco, ricercatrice di Gulf State Analytics che ci spiega i dettagli del progetto, la prima forma di tassazione al 2,4 per cento riguarderà le proprietà terriere. Saranno poi introdotte imposte sui beni di lusso, aumentate quelle sull’assunzione di personale non saudita, potenziata una specie di Green Card all’americana: un permesso di residenza da pagare per gli stranieri.
L’introduzione delle tasse è soltanto una parte del piano. Il cuore della manovra per Bianco è la messa sul mercato del 5 per cento della compagnia petrolifera nazionale Aramco, per costituire un fondo che possa fare investimenti strategici di prodotti finanziari in Arabia Saudita e all’estero. «L’idea sarebbe quella di attirare investimenti privati nei settori non energetici dell’economia: minerario – l’Arabia Saudita ha il sei per cento della riserva mondiale di uranio – turismo religioso (il pellegrinaggio islamico alla Mecca), finanziario, sanitario, edilizio». 
Per ora, non è prevista nel regno la cancellazione degli ingenti sussidi statali, non soltanto energetici, alla popolazione, mentre altri Paesi del Golfo hanno già preso quella strada. 
La faccia dietro a questo piano di riforme, rivoluzionario per l’Arabia Saudita, è quella del figlio del sovrano, il trentenne Mohammed bin Salman, ministro della Difesa e presidente del Consiglio economico e per lo sviluppo. È lui che negli ultimi mesi ha rilasciato lunghe interviste a Bloomberg e all’Economist, esponendo i dettagli delle riforme. «Questa è una rivoluzione thatcheriana per l’Arabia Saudita?», ha chiesto al principe il settimanale britannico. «Senza alcun dubbio». 
Se Mohammed bin Salman è il volto dietro al progetto, a Riad nei mesi scorsi l’attività delle principali società di consulenza mondiali è stata frenetica, ha scritto il giornale di Abu Dhabi, the National, raccontando come Riad abbia speso 1,25 miliardi di dollari per gli studi di Deloitte, PwC, EY, KPMG, e soprattutto McKinsey, che sul suo sito spiega come l’obiettivo del regno sarebbe quello di creare entro il 2030 sei milioni di posti di lavoro. Mohammed bin Salman a Bloomberg ha parlato di rendite non petrolifere pari a 100 miliardi di dollari entro il 2020. 
Con il nuovo corso post-petrolifero si apre per il regno ultraconservatore del monarca assoluto Salman un problema anche di natura politica e sociale. «No taxation without representation», no tasse senza rappresentazione politica, dicevano i cittadini delle prime Tredici colonie americane al lontano Parlamento britannico nel XVIII secolo. «Nel contratto sociale degli Stati che vivono di rendite energetiche – dice Bianco – i cittadini non chiamati alla tassazione rinunciano alla rappresentazione. E così, molti governi autoritari non hanno a lungo introdotto tasse per timore di rivolte sociali. Per difendersi, nel piano saudita è stato inserito il concetto di lotta alla corruzione: si introduce una certa disciplina finanziaria per tutti».