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 2016  aprile 22 Venerdì calendario

In morte di Prince

Giuseppe Sarcina per il Corriere della Sera
La vita di Prince Roger Nelson è finita ieri mattina alle 10.07. Da solo, in un ascensore. Prince è morto così a 57 anni, nella sua villa di Paisley Park, a Chanhassen, poco lontano da Minneapolis, Minnesota, centro nord degli Stati Uniti.
Le notizie sono ancora frammentarie e confuse. Lo sceriffo della Contea di Carver, scrive il sito Tmz, avrebbe riferito che non vi erano tracce di colluttazione o altri indizi sospetti. Sarebbe esclusa quindi l’eventualità di un omicidio che le procedure investigative devono comunque sempre prendere in considerazione.
Le autorità di Minneapolis hanno fatto sapere di aver ricevuto una chiamata d’emergenza dalla residenza del cantante. Ma i soccorritori, sopraggiunti dopo pochi minuti, si sono trovati davanti un uomo già privo di conoscenza. Sei ore dopo il decesso, alle 15.30 americane, le 21.30 in Italia, il corpo di Prince è stato esaminato dai medici della scientifica. L’ipotesi è che sia stato stroncato da un problema respiratorio.
Venerdì scorso, la pop star si era sentita male sul suo jet privato tornando a casa dopo un concerto ad Atlanta. L’aereo aveva deviato sull’aeroporto di Moline, in Illinois. Un breve ricovero in ospedale, poi di nuovo a Paisley Park, un complesso di tre blocchi di cemento bianco che ricordano più il Pentagono che la residenza di un artista creativo ed eccentrico come era Prince. Solo un breve tweet per rassicurare il popolo dei fan: tutto a posto, solo un’influenza. Il giorno dopo era ricomparso sul palco. In realtà nelle ultime settimane aveva rinviato un paio di performance, tormentato da una febbriciattola fastidiosa.
Le tv americane si sono immerse in una strana combinazione di lutto, dispiacere e kermesse musicale non-stop. Sulla Cnn si alternano gli aggiornamenti dal Minnesota, i clip delle canzoni più famose e una sequela di testimonianze sulla vita della star. Qualcuno ha provato a stabilire un parallelo con la morte di un’altra grande figura musicale, Michael Jackson, ritrovato senza vita nella sua residenza di Hombly Hills, Los Angeles, il 25 giugno 2009. Alla fine risultò che Jackson morì intossicato: il suo medico personale, Conrad Murray fu ritenuto responsabile e condannato a quattro anni per omicidio colposo.Ma nel caso di Prince per ora non ci sono neanche illazioni.
Il presidente Barack Obama, classe 1961, stessa generazione di Prince, ha scritto su Facebook: «Oggi il mondo perde un’icona creativa ed elettrizzante… Pochi artisti hanno influenzato il suono e il percorso della musica pop in maniera così evidente. Poche persone hanno emozionato la gente con un simile talento». Sulla rete di recinzione di Paisley Park sono comparsi i primi mazzi di fiori viola e gialli. Davanti all’Apollo Theatre, ad Harlem, New York, le bancarelle vendono magliette con l’immagine del cantante che qui, negli anni Novanta, diventò una leggenda.

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Andrea Laffranchi per il Corriere della Sera
Libertà. Artistica e sessuale. Se aggiungiamo 100 milioni di dischi venduti in carriera, ecco il riassunto ai tempi di Twitter della carriera di Prince.
In nome di quei due comandamenti da vegliare senza compromessi, Prince era capace di farsi del male, di prendere decisioni che andavano contro il suo interesse. Determinato sin dagli esordi. Al debutto aveva chiesto e ottenuto da un colosso come la Warner pieno controllo creativo sul primo album «For You». E se lo era scritto, cantato e suonato tutto da solo. Questa voglia di essere senza vincoli lo aveva poi portato in rotta di collisione con il mondo della discografia. A metà anni Novanta le divergenze con la Warner sul controllo artistico e finanziario della carriera erano sfociate in una violenta causa legale. Per protesta Prince si mostrava in pubblico con la scritta «slave», schiavo, sul volto.
La sua libertà era anche sessuale. I testi sensuali, anzi i riferimenti espliciti nelle canzoni. Le donne splendide al suo fianco: le mogli Mayte Garcia a Manuela Testolini, i flirt con Madonna, Kim Basinger e Carmen Electra, le splendide musiciste che reclutava come Sheila E. A fare da contrasto un’immagine androgina, accentuata dal fisico minuto e dalla bassa statura che gli erano valsi il soprannome di folletto, costumi attillati (il viola non poteva mancare, quasi un ossessione) e stivali col tacco. Questa ambiguità apparente ne aveva fatto un bersaglio per la borghesia benpensante americana. Fu ascoltando una sua canzone, «Darling Nikki», che Tipper Gore, moglie del futuro vicepresidente Usa, lanciò la campagna che portò agli adesivi sui cd con contenuti spinti, violenti o volgari.
Prince Rogers Nelson era nato a Minneapolis, nel 1958, mamma cantante jazz e papà musicista che gli aveva dato il nome da quello della sua band, Prince Rogers Trio. Aveva iniziato presto con la musica, la prima canzone scritta a 7 anni, un concerto illuminate di James Brown visto a 10 anni.
La carriera discografica era partita in autarchia nel 1978 con «For You»: il via a quattro decenni che hanno lasciato il segno. Partendo dalle radici nere, funk, soul e r&b, Prince ne aveva smantellato i confini espandendosi verso rock, psichedelia e pop. Nell’83 con «Little Red Corvette», dall’album «1999», era arrivato il primo successo e si era aperto un decennio di ispirazione totale. «Purple Rain» (‘84), 13 milioni di copie solo negli Usa e un Oscar alla colonna sonora del film vagamente autobiografico di cui era protagonista, lo aveva trasformato nel rivale di Michael Jackson. Quindi tre capolavori: «Around the World in a Day», «Parade» e «Sign O’ the Times». Gli anni Novanta avevano segnato l’inizio di un periodo di confusione artistica sfociato nella causa con la Warner che voleva controllare la sua produzione. Così Prince aveva pubblicato un disco senza un titolo, ma con un segno grafico al suo posto, il simbolo dell’amore come è stato poi ribattezzato che univa il segno di Marte e quello di Venere a rappresentare l’universo maschile e quello femminile. Aveva deciso di farsi chiamare con quel simbolo, che andrebbe pronunciato come Tafkap, acronimo di The Artist Formerly Known As Prince, ovvero l’artista precedentemente conosciuto come Prince. «La musica è stata creata per dare conforto all’anima e aiutare la gente a uscire dai momenti brutti — diceva —. Quando scrivi non ci devono essere linee guida». La sua esigenza di libertà senza limiti e confronto era diventata paradossalmente una gabbia troppo stretta. I suoi concerti dal vivo però hanno tenuto alta l’asticella. Il suo tocco sulla chitarra aveva un’energia che arrivava da Jimi Hendrix ma anche una dolcezza che usciva nelle ballad. Si circondava sempre di musicisti di livello e la voglia di live era tale che al termine dei concerti cercava locali per uno show notturno supplementare. Tranne forse «Musicology» del 2004 la scintilla non si era più riaccesa, ma Prince aveva continuato a far parlare di sé. Con la conversione ai Testimoni di Geova e la voce che andasse in giro a predicare porta a porta. E poi il rapporto difficile con internet. «Ditemi di un musicista che è diventato ricco con il digitale. Invece mi sembra che Apple se la passi bene», aveva detto. Da un lato pioniere — nel 1997 aveva annunciato la pubblicazione di «Crystal Ball», cofanetto che non si poteva acquistare nei negozi ma andava preordinato sul web — dall’altro diffidente al punto da far rimuovere la propria musica da YouTube e da non concederla alle piattaforme di streaming (tranne Tidal). Difficile da trovare, come un tesoro da scoprire.

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Carlo Moretti per la Repubblica
«È a terra, non respira più, venite a salvarlo». La chiamata al Centro medico d’emergenza di Chanhassen, in Minnesota, è arrivata intorno alle 9.45 di ieri mattina. Giunti sul posto, però, i soccorritori non hanno potuto far altro che constatare la morte di Prince trovato senza vita nell’ascensore della sua casa-studio alle porte di Minneapolis. Se ne va così, a soli 57 anni, uno dei più grandi personaggi della musica pop, «un genio», per dirla con le parole che usò Miles Davis per definirlo. Un artista amato in tutto il mondo, che dopo l’enorme successo di “1999” del 1982 aveva venduto 100 milioni di dischi e saputo reinventare la musica soul portandola oltre la dance e intercettando con grande anticipo i suoni che si sarebbero affermati nel decennio successivo. «È stata una fatalità», hanno detto gli agenti del dipartimento dello sceriffo della Contea di Carver mentre si organizzavano per avvertire i familiari. Nessuna certezza sui motivi del decesso, dopo che nei giorni scorsi il folletto di Minneapolis aveva dovuto cancellare due date.
Venerdì scorso, all’una del mattino, dopo aver tenuto un concerto del tour piano-solo ad Atlanta, Prince era atterrato d’emergenza con il suo aereo privato a Moline, in Illinois. Le condizioni del folletto di Minneapolis, da giorni alle prese con quella che il suo addetto stampa avrebbe poi definito «una brutta influenza», a bordo del suo jet erano molto peggiorate e per il musicista s’era reso necessario un ricovero d’urgenza. Dopo tre ore, però, era stato dimesso dall’ospedale. Il giorno dopo, a sorpresa, s’era ripresentato sul piccolo palco nella casa-studio di Paisley Park alle porte di Minneapolis: l’aveva fatto allo scopo di tranquillizzare i fan, un folto gruppo di fedelissimi che animavano le sue feste-concerto a tema con ingresso a dieci dollari. In quell’occasione aveva solo suonato il pianoforte e mostrato le solite meraviglie su una nuova chitarra, evitando però di cantare: «Aspettate ancora qualche giorno prima di sprecare le vostre preghiere», aveva avvertito Prince prendendo il microfono.
A Paisley Park, due grandi capannoni alla periferia di Minneapolis in cui nessuno avrebbe potuto immaginare quei tre spettacolari studi di registrazione e due grandi sale da concerto, eravamo stati invitati insieme a una manciata di altri giornalisti europei proprio per la presentazione del tour “Prince Spotlight: A piano & a Microphone tour”. Un appuntamento al buio in cui Prince avrebbe annunciato il suo ennesimo cambio di rotta musicale, in cui avrebbe staccato la spina elettrica alla sua musica e affidato le sue canzoni al pianoforte per eseguirle nude, nella loro fiammante bellezza, con il solo ausilio dell’inconfondibile voce di acuti e falsetti.
Dopo un’estenuante caccia al tesoro fatta di mail e smentite, ci aveva ammesso con divieto di registrare e di filmare l’intervista in quella sorta di parco-giochi per tutti gli amanti della musica in cui il suo genio artistico si raccontava ad ogni angolo: disseminati su una superficie di 5 mila metri quadrati, una sala relax molto hippie e psichedelica, un grande murales con Prince circondato dai musicisti delle sue band e dai suoi miti passati e viventi: James Brown, Miles Davis, Santana, Otis Redding; due spazi dedicati ai memorabilia con i vestiti di scena e la moto Honda utilizzata nel film Purple rain. Su tutto dominava il viola in tutte le sue gradazioni: alle pareti, sul velluto dei divani e delle poltrone. Appeso al soffitto, esposto alle pareti, tornava il simbolo impronunciabile che racchiudeva l’elemento maschile e femminile adottato nel periodo della sua lunga lotta contro le case discografiche negli anni Novanta: «Clive Davis una volta mi ha detto: “nessuno ha pensato di farti fare i soldi con i dischi”», ci raccontò ad un certo punto, «se vuoi farli devi andare in tour: questo è il modo in cui ragionano i discografici». Una considerazione che in quegli anni lo portò a scriversi la parola schiavo sulla guancia durante le sue esibizioni dal vivo.
Prince Rogers Nelson aveva in programma di tenere 16 date di quel tour in Europa, e in Italia sarebbe venuto al Teatro degli Arcimboldi il 15 dicembre. Ma poi ci furono gli attacchi terroristici di Parigi con la strage al Bataclan e il progetto sfumò. «Ero in contatto con il suo manager per portarlo a Lucca questa estate» dice Mimmo D’alessandro, l’organizzatore del tour sfumato. «Prince stava pensando di partecipare anche al Festival jazz di Montreaux, ci saremmo risentiti domani sera con il manager, per me è stata una notizia tremenda e improvvisa».
Quel giorno a Paisley Park, la serata s’era chiusa con un pigiama party fino a notte fonda. Prince s’era affacciato solo un attimo, il fisico minuto e l’ampia acconciatura afro, i pantaloni a campana e la maglietta bianchi, le infradito con la zeppa e anche i calzini. Poi era scomparso dietro le quinte.

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Gino Castaldo per la Repubblica
La cosa che ti colpiva di più quando lo incontravi era la sua piccolezza: uno gnomo, minuto, la faccia da cerbiatto con l’occhio sornione e allungato di un cartone animato. Piccolo, sì, quasi indifeso, ma quando saliva sul palco diventava un gigante, un vulcano di musica. Prince non era un musicista, era la musica in sé, un prodigio che trasudava creatività, ritmo, sensualità, e che solo per frettolose catalogazioni è stato interpretato come un miscelatore di generi. Non li mescolava come uno scienziato in laboratorio, li usava con naturalezza, come un pittore che usa colori a piacimento, fossero le fluttuazioni del jazz, le chitarre lancinanti del rock, i coretti soul, i ritmi primitivi o elettronici, danze e scintillanti psichedelie. E lo ha fatto fin da quando a soli 20 anni (1978) si è prodotto il suo primo disco, For you, cadenzando la sua ascesa con un disco l’anno, fino al primo vero exploit, l’album 1999 (era il 1982), dove il genio in crescita immaginava un’elettrica e dislocata fine di millennio che sembrava il vero e unico party del futuro.
Prince era prorompente, inarrivabile, un caleidoscopio inafferrabile di segni bianchi e neri, soprattutto quando imparammo a conoscerlo dal vivo, quando se ne uscì con Purple rain (1984), quel lungo interminabile parlato che incantava fino a scoppiare come un orgasmo nel ritornello che si cantava in coro, e poi soprattutto quando nel 1987 incise e portò dal vivo una vera e propria opera: Sign o’ the times.
Era davvero il segno dei tempi, una fantasmagoria di coreografie, un folle ritmo di invenzioni e movimenti che stordiva, lasciava senza fiato e trasmetteva energia, piacere, ricchezza. Il piccolo minuto principe dominava la scena, padroneggiava il suo multilinguaggio con una naturalezza sorprendente, grande performer, ma nello stesso tempo insuperabile regista, leader, capobanda. Blandiva, ammiccava, trasgrediva, era sboccato, una linguaccia sempre pronta allo sberleffo e soprattutto a immaginare una costante militanza a favore della libertà sessuale, o meglio della libertà in tutti i sensi. Si usciva da quei concertirigonfi di energia.
E poi ancora Lovesexy, Graffiti bridge, e anche un disco senza scritte e segni di alcun tipo, il cosiddetto “black album”, per portare fino in fondo la voglia di uscire dagli schemi, di liberarsi dai vincoli discografici, di dare battaglia, di rinunciare addirittura al suo nome, sostituendolo con un simbolo, pur di non essere schiavo, di proprietà di qualcun altro.
Sono anni complicati, il Prince degli ultimi anni Novanta e primi Duemila si confonde, produce tanti dischi (39 in totale nella carriera), spesso in sordina, in molti ne perdono le tracce, tranne poi ritrovarlo in tour esplosivi e devastanti, scorribande funky mozzafiato, e poi ancora, di tanto in tanto, con la voglia di ricantare le sue canzoni più belle. Ora il vulcano si è spento. Sembra impossibile.

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Marco Molendini per Il Messaggero
È tempo di rimpianti per il mondo della musica. Se ne va il talento più irrequieto, generoso e orgoglioso. Un monumento della black music, un formidabile inventore saccheggiato da tutti, un protagonista energico, eccentrico, inafferrabile, miscelatore di un cocktail esplosivo e terribilmente contemporaneo di rock, pop, new wave, funky, elettronica, r’n’b, jazz (esiste un bootleg che documenta la sua collaborazione con Miles Davis nell’88, titolo Crucial).
Un caposcuola capace di tenere insieme tradizione e modernità, un filo che va da Louis Jordan a Ray Charles, James Brown, Jimi Hendrix e Stevie Wonder, che solo lo scontro violento fra il suo caratteraccio e l’ingordigia delle major hanno messo a lungo ai margini del music business. Finisce così, a soli 57 anni, la vita incompiuta di Roger Nelson in arte Prince, schiacciata fra un estro fuori misura, il successo e la voglia di tutelare a tutti i costi la propria indipendenza creativa. Una guerra cominciata nel 1987 con The Black Album che venne mandato al macero e non si è mai capito se Prince non fosse soddisfatto del risultato, se fosse rimasto infastidito della fuga di notizie riguardo alla titolarità dell’opera che doveva rimanere misteriosa o se fosse stato snobbato dalla Warner Bros (comunque il cd uscì, ma solo nel 93). 
Una sorta di Don Chisciotte del rock, pronto a combattere contro i mulini a vento della discografia fino a scegliere l’isolamento, a affrontare flop (il film Graffiti bridge), a negare perfino la propria identità (facendosi chiamare The artist, Symbol o Tafkap, acronimo per il lunghissimo The artist formerly known as Prince), ad apparire in tv con la scritta Slave, ovvero schiavo, sulla faccia, pagando la sua lotta in termini di successo e economici. Eppure non si era certo consumato il talento espresso in Purple Rain, il disco dell’84 che rappresenta il suo più grande riconoscimento popolare e, a tutt’oggi, uno degli album più riusciti di black music, evidente negazione delle banalità in fotocopia, che venivano prodotte a quei tempi, e in un giacimento di canzoni che va da Kiss a Purple Rain, da The love we make a Let’s go crazy. A testimoniarlo i suoi numerosissimi dischi e, soprattutto, i concerti, veri e propri sabba musicali, tripudio di creatività imprevedibile, dove poteva succedere di tutto.
Un personaggio estroso e bizzoso, assai diverso dalle tante superstar del rock e del pop. E la sua carriera, per questo, è stata sicuramente particolare. Baciato dalla fortuna (con quel talento extralarge del resto, era impossibile che non accadesse), bimbo prodigio (figlio di genitori musicisti, il padre pianista, la madre cantante jazz, a 13 suonava già una dozzina di strumenti), eppure segnato dalla malattia (raccontò di essere nato epilettico), guidato dalla voglia di affermarsi a dispetto di tutto e di tutti, pronto a scandalizzare con riferimenti sessuali espliciti (i pezzi di fine anni 80 come Insatiable e Scandalous), a pretendere contratti stratosferici, a stravolgere anche le regole codificate della musica, ragione per cui si è spesso impelagato in beghe e vicende giudiziarie che ne hanno condizionato il successo, costretto a inventare per i propri dischi vie non commerciali, con distribuzioni alternative. Anche in Italia ha avuto lunghe querelle, come la vicenda che lo ha tenuto lontano per tantissimi anni, dal giorno di un bellissimo concerto allo stadio Flaminio nell’estate del ’90: quel tour fu tribolatissimo, lo stesso concerto romano non ebbe gran pubblico, e Prince decise di abbandonare il campo mollando l’impresario. E la vicenda giudiziaria che nacque è stata risolta soltanto pochi anni fa.
Ad arricchire la sua tribolata vita economica ci sono stati i guai col fisco americano e, tornando all’Italia, uno dei suoi pezzi più noti, The most beautiful girl in the world, è stata oggetto di una causa intentata da due autori, Bruno Bergonzi e Michele Vicino, che hanno accusato il folletto di Minneapolis di aver copiato la loro Takin’ me to paradise dell’83.
Pare che in questi ultimi tempi Prince stesse scrivendo un libro di memorie, The beautiful ones: di cose da raccontare ne aveva sicuramente parecchie.

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Marinella Venegoni per La Stampa
Un’altra perdita enorme per la musica popolare internazionale, in quest’anno iniziato con la scomparsa di David Bowie. Se n’è andato a 57 anni, nel mistero com’era vissuto, Prince Rogers Nelson in arte semplicemente Prince, per tutti il Genietto di Minneapolis: così definito, dalla città di nascita e di morte che non aveva mai abbandonato, per la statura minuscola che nascondeva un talento immenso, tanto che Miles Davis lo aveva definito il punto d’arrivo della musica nera del secolo scorso: «È della scuola di James Brown... ma in sé ha un misto di Marvin Gaye, Jimi Hendrix e Sly, perfino di Little Richards. E’ un insieme di tutti costoro più Duke Ellington, un ragazzo che guarda al futuro». 
Secondo il sito TMZ, che ha dato ieri la notizia della morte, Prince è stato trovato senza vita nell’ascensore dello studio di registrazione della sua abitazione a Chanhassen, un sobborgo della sua città. Qualcuno (chi?) ha telefonato allo sceriffo della Contea alle 9,43 parlando di emergenza medica, «per un maschio privo di attività respiratoria». Il decesso è stato poi confermato dalla sua addetta stampa. Ma il mistero rimane fitto, come tutto ciò che ha riguardato la star. Bene non stava, da tempo. Dieci giorni fa, il suo aereo privato aveva atterrato in emergenza in Illinois: era stato trasportato in ospedale e si era parlato di una semplice influenza. Due concerti erano stati cancellati, ma si disse che Prince soffrisse da parecchio tempo: questo non gli aveva impedito di fare una breve apparizione a una festa che aveva organizzato appena una settimana fa.
È morto nel luogo che più amava: la sala di registrazione era la sua vita stessa, aveva inciso 39 dischi di inediti, 4 dei quali negli ultimi 18 mesi, ed enorme resta il repertorio musicale inedito custodito nei suoi file a Paisley Park, una specie di castelletto dotato di discoteca e teatro, alquanto kitsch, che visitai negli ‘80, in un raro momento di buon umore del Genietto di Minneapolis che si aprì ai media di tutto il mondo. 
Osservatore più attento di Miles Davis non ci poteva essere. Paragonare Prince a Duke Ellington dà bene l’idea dell’innovazione stilistica che Prince aveva rappresentato quando, dopo molti tentativi e qualche singolo di successo, era riuscito a fare breccia sulla scena nei primi Ottanta, prima con Controversy poi con Purple Rain, l’album dell’84 la cui canzone omonima di rara intensità gli dischiuse le porte del mercato internazionale, guadagnandogli anche un Oscar. 

Fu da subito chiara l’innovazione delle eredità ricevute dai suoi predecessori: il funky che sviluppava le intuizioni di Marvin Gaye e James Brown, e l’incredibile capacità chitarristica, con anche un gusto spettacolare che ha mostrato fino ai nostri giorni, e che ne fa lo strumentista più talentuoso al mondo, secondo soltanto a Jimi Hendrix. Suonava di tutto, però: si disse che ci fosse la sua mano sui 27 strumenti del primissimo album, For You. Ma il suo stile eclettico ha toccato rock, rhythm’n’blues, soul, funk, jazz, hip-hop, psichedelia e anche pop. 
Fu aperto nel toccare temi sensibili in molti suoi album. Sign O’ The Times dell’87 (che diventò, come Purple Rain, anche un film) uno dei più celebri e il più bello, parlava per esempio di povertà, droga e violenza. Aveva un approccio ironico e orgoglioso alla musica, in scena gli piaceva tenere una nota sulla chitarra per lunghi secondi beandosi delle urla del pubblico, con appena un’ombra di sorriso sul volto. Si compiaceva di virtuosismi stratosferici senza battere ciglio, riusciva ad essere lui stesso spettacolo solo circondato dalla band, quando smise di mettere in scena quei meravigliosi concerti spettacolo degli Anni 80 che passarono tutti quanti per l’Italia, Lovesexy Sign o’ The Times; musical scintillanti, con scenografie eclatanti e colorate, con il ritmo che pulsava per due ore abbondanti con la band e lui scatenatissimo nei suoi abiti pittoreschi. Indimenticabile. 
Tutto cambiò quando nei primi ‘90 ci fu una durissima contesa con la sua etichetta, la Warner, che gli bloccò il Black Albumnon ritenendolo adatto al pubblico. Ne nacque una contesa che nel ‘92 gli fece decidere di scriversi «Slave» sul volto, e a lungo rinunciò al proprio nome facendosi chiamare «Tafkap», The Artist Formerly Know As Prince. Tornò da indipendente, si rivolse a Internet ma i demoni della rete lo resero diffidentissimo, chiuse i ponti. La sua attività si fece caotica e la si seguì con difficoltà. Ultimamente lo si trova su Tidal, la piattaforma di Jay Z.; ha collaborato anche con la Warner. A chi andrà il tesoro di Prince? Questa è la grande domanda. Due le mogli: Mayte Garcia sposata nell’86, da cui ebbe un figlio morto quasi subito, e l’italiana Manuela Testolini, dal 2001 al 2006. Poi, mistero.