Corriere della Sera, 22 aprile 2016
Tutto il mondo apocalittico di Anna Maria Ortese in un volume dell’Adelphi
Sotto il titolo Le Piccole Persone (In difesa degli animali e altri scritti, a cura di Angela Borghesi), la casa editrice Adelphi pubblica numerosi bellissimi scritti di Anna Maria Ortese, in gran parte inediti. In apparenza sono testi sparsi: frammenti. In realtà, come accade sempre in un grande scrittore, appartengono tutti a un sistema. La Ortese ha una mente lucida, ardimentosa, estrema, abitata da una passione filosofica, che la induce a interrogare i misteri di questo e dell’altro mondo, del qui e del perennemente oltre.
Il primo dei suoi pensieri è il desiderio-dolore metafisico, la leva di ogni mente umana. «Ogni tanto – scrive nel Cardillo addolorato —, di notte o verso l’alba, mi sveglio con un dolore che è il più disperato e intollerabile di tutti quelli che ho conosciuto. Non so dove mi trovo. Dove sia collocato l’universo, ecco cosa non so. Né come si chiami. E che cosa sia, e di chi sia. Da anni, mi pare, l’idea di queste infinite strade stellari mi si presenta, la notte, e mi fa gelare, sognare, tremare. Dove sono? Chi – io – fra miriadi di abitanti la Terra, fra miriadi di pianeti, di soli, e che cosa sia questa galassia fra le altre galassie? Ma il luogo soprattutto vorrei sapere, e so che non saprò mai: dove tutto ciò è presente, e il suo vero nome, e, se non ha nome, il perché di questo silenzio sul nome». Con il desiderio-dolore metafisico in cuore, la Ortese batte alle porte dell’Essere; e domanda quale sia l’essenza del mondo e della natura e che cosa presieda ai fatti, e quale ne sia l’ordine, il senso, il principio. Scruta la verità con tutto il corpo – con il corpo delle piante, degli alberi, delle pietre, degli animali, degli uccelli – e sopratutto con il corpo delle stelle, dalle quali è discesa.
Il dolore è, in primo luogo, quello degli animali, supremo tra i suoi pensieri. Ascolta questo dolore specialmente il mattino, quando gli uccelli gridano invocando la madre o i figli, che sono stati loro strappati. Anche se Dio apparisse benedicendo dall’alto dei cieli, se il male fosse vinto, se tutte le creature vivessero giuste e felici, se Utopia fosse qui, basterebbe la sofferenza di una lumaca che un bambino ha schiacciato camminando, perché appaia chiara l’ingiustizia e la malvagità dell’universo.
La Ortese difende gli animali. Essi sono «anime viventi»: tale è il loro nome nei libri sacri: sono anime viventi come l’uomo: come lui, sono creature di Dio, anzi sono Dio; ma oggi occupano il grado più basso della vita vivente, soggetti alla infame programmazione dell’uomo. L’uomo si appoggia a un passo della Genesi, per affermare il suo dominio sull’universo e gli animali, che considera sua proprietà. Ma quel passo è falso o è stato male interpretato: l’uomo non è mai stato eletto signore degli animali. Dio è presente in tutte le forme dell’universo: in tutti gli immani cortei di stelle, nei pianeti, nel nostro pianeta, nelle montagne, nei mari, nella terra fiorita, nell’uomo, e in tutta la incomparabile energia che organizza le proprie forme, le completa, e poi le disperde in un solo soffio.
La Ortese esalta le origini: un Padre, un Paese beato e felice, che sta prima delle origini; sia la natura sia l’uomo sono mossi di lì, e poi sono naufragati. Allora è avvenuta la separazione: la separazione dell’uomo dalla natura, la separazione della natura da un Altro incomprensibile; il naufragio, di cui parlarono Leopardi e Pascoli. Questa separazione ha causato il lutto della natura: essa risuona nelle voci degli uccelli, sopratutto di quelli più lieti; «una nota accorata, un’alta e trepida malinconia».
Come Leopardi e Pascoli, la Ortese ama gli uccelli: questa famiglia di origine angelica che, nel fitto delle foreste, canta per l’uomo, ricordandogli che Dio non l’ha dimenticato: questi esseri gonfi di cielo, la cui patria è il cielo squillante di colori, splendido e inebriante come uno stendardo azzurro; questi capini macchiati di rosso, con le penne piccole, lisce e diritte, che sembrano uscire da un liquido fuoco o da un largo d’oro e turchino. Per uno scrittore, la cosa essenziale è ascoltare il canto degli uccelli, e ripeterlo. Ma dove sono? «Mi ricordo improvvisamente degli uccelli – dice la Ortese – che un tempo popolavano la mia casa e, non vedendoli più, mi domando con stupore: “Dove sono, dove sono volati?”. Non posso credere che siano morti».
La Ortese non ha fede nella pura letteratura: o soltanto in quella che muove dalla meraviglia, dall’ammirazione e dalla compassione; verso tutte le forme, quelle che sono fuori dal mondo e non vediamo, e quelle che appaiono e scompaiono sul nostro pianeta. La compassione è la qualità propria dell’uomo: senza compassione l’uomo è nulla; niente ha valore in tutta la vita dell’uomo sulla terra, nemmeno l’arte e la religione, se non viene accompagnato dal desiderio di soccorrere un altro, vivo e dolente.
La compassione sceglie ciò che è piccolo e segreto. Piccolo è il sentimento di un bambino per il suo cane, o di una donna per il suo ultimo bambino. Il piccolo è anche segreto, perché, essendo piccolo, non è consapevole di esistere. Così le farfalle, specie quelle moribonde. «In un angolo, combattendo ancora, ma molto debolmente, contro la morte – racconta la Ortese —, c’era una di quelle farfalle color seta cruda, piccolissime, quanto un chicco di riso, che spesso, la sera, entrano dalle finestre aperte nelle nostre case. Io ero al corrente, come pochi individui, del terrore che anima quelle deboli creature allorché vengono catturate e, strette in un pugno, sentono ridere, e con i loro poveri occhietti osservano gli strumenti che serviranno a torturarli. Io sapevo che non possono parlare e neppure esprimersi in altro modo, ma con tutte le loro innocenti forze si ribellano e chiedono la grazia della vita». In ogni momento milioni di vite gaie e dolci chiedono di essere risparmiate, e la risposta è quasi sempre un rifiuto.
Il mondo della Ortese discende dalle stelle e ritorna verso le stelle. Esso è apocalittico. Ora invoca la distruzione dell’uomo, questa creatura senza legge, travolta dai suoi delitti. Ora invoca una Nuova Terra, una terra riscattata dai vecchi e turpi dèi della tortura e del massacro, dove potrà vivere anche l’uomo, trasformato e risorto. «Ecco cosa chiede il vero vivente – a gran voce, nella notte, chiamando lo spirito, uno e solo, di tutta la vita». Persino l’Italia, questa terra corrotta, riapparirà un giorno, calma e gentile sotto un cielo celeste. Ci saranno giardini, boschi, belle città. Una popolazione rara e mite vivrà in questi luoghi benedetti. «Avremo allora – finalmente – la malinconia». Essa sarà presente nelle voci degli uccelli, questa nota suprema e velata, che chiede, interroga, sa tutto sul passare delle cose; e nel dolore dell’uomo, vero colore della sua grazia.