MilanoFinanza, 20 aprile 2016
Ma la domanda è: le banche da salvare riusciranno poi a ritornare protagoniste nel mercato?
Per anni abbiamo atteso con ansia una norma sulla risoluzione delle banche in crisi che rendesse più semplice e rapido il loro salvataggio senza troppo appesantire le finanze statali. Finalmente tale norma, imperniata sul noto e ormai famigerato bail-in, è stata varata e rappresenta uno dei pilastri della cosiddetta Unione Bancaria Europea. Dopo i primi entusiasmi sono cominciate le critiche, anche da parte delle autorità bancarie italiane, che ritengono la risoluzione, così come organizzata dalla norma suddetta, troppo macchinosa, difficilmente applicabile e anche per vari aspetti iniqua, specie nei riguardi dei creditori che, spesso in modo inconsapevole, affidano i risparmi alle banche anche quando non li meriterebbero. Si è così diffusa una sensazione di sfiducia (e, diciamolo pure, di paura) nei riguardi dell’applicazione concreta della risoluzione, che in effetti non è ancora stata utilizzata in alcun Paese dell’Unione.
Eppure non è che non ci siano più crisi bancarie. Anzi, in diversi casi e anche in Italia il numero delle banche in crisi è cresciuto negli ultimi anni attirando l’attenzione dei governi, delle autorità monetarie, dei sistemi bancari e finanziari e della società in generale. Tutti sono d’accordo nel ritenere opportuno fare in modo che le banche in crisi non falliscano, nell’interesse dell’economia finanziaria e di quella reale e in quello della società nel suo insieme. Ciò vale non solo per le banche troppo grandi o troppo interconnesse, sulle quali sono stati versati fiumi di inchiostro, ma anche per le altre, forse con l’eccezione di quelle piccolissime, per le quali continuano a esser applicate le procedure di liquidazione tradizionali, che sono rimaste valide anche in presenza delle norme sulla risoluzione. Non discuto sulla bontà della scelta di fondo, che mi sembra sensata. Mi piacerebbe invece discutere sul fatto che in Italia, invece di utilizzare le norme sulla risoluzione di stampo europeo, si seguono strade autonome, che per essere autorizzate dalle autorità europee non devono contemplare aiuti di Stato. Eppure esse si basano sull’iniziativa governativa o politica in generale e hanno dato luogo a provvedimenti aventi forza di legge e a interventi statali. Come ha ben detto Angelo Baglioni, abbiamo così assistito a interventi di Stato senza aiuti di Stato. Se questo fosse vero e autorizzabile, non so. So che è stato fatto e che quindi deve essere stato autorizzato. La via italiana alla risoluzione (di fatto anche se non di diritto), di cui si sono compiaciuti alcuni nostri banchieri rilevando che rappresenta un unicum a livello europeo, è sostanzialmente composta da tre provvedimenti: a) la costituzione, da parte del Fondo di Tutela dei Depositi con mezzi forniti dalle banche a esso aderenti, di una holding in cui è stata fatta confluire la proprietà di quattro banche in crisi, che la holding ha ricapitalizzato permettendo loro di tornare a rispettare i ratios di vigilanza nell’attesa che gli istituti siano venduti a terzi; b) la concessione della garanzia statale sui titoli che saranno emessi dai veicoli protagonisti della cartolarizzazione dei crediti bancari in sofferenza; c) la costituzione del fondo Atlante, che, con la prevista sottoscrizione di quote per circa 6 miliardi effettuata da banche, fondazioni, assicurazioni e altri, provvederà a investire negli aumenti di capitale di banche in difficoltà e nell’acquisto di crediti in sofferenza.
I tre provvedimenti sono stati concepiti separatamente l’uno dall’altro. A posteriori possono tuttavia essere considerati un corpo unitario. Essi sono stati comunque dettati dall’urgenza e sono molto complessi, al punto che molti dubitano sulle loro possibilità di successo. Forse solo l’intervento di Atlante nella sottoscrizione degli aumenti di capitale delle banche in difficoltà potrà procedere più o meno speditamente, il che non è cosa di poco conto, anche se detti aumenti, se non saranno accompagnati da profonde ristrutturazioni organizzative delle banche emittenti, saranno solo dei pannicelli caldi destinati ad avere conseguenze passeggere. Il problema delle sofferenze invece richiederà soluzioni più ampie, più drastiche e più semplici di quelle ipotizzate. Per inciso, ripensando al nome del fondo ritengo che sia stato scelto bene. Atlante è il gigante condannato da Zeus a sostenere sulle spalle il grande peso della volta del cielo. Atlante è il fondo osannato dalla comunità bancaria italiana condannato a sostenere il grande peso degli errori gestionali e delle conseguenti attività problematiche delle banche in crisi. Tutto lascia presumere che, coscientemente o meno, la scelta del nome non sia stata casuale. Atlante prevede peraltro l’intervento diretto dello Stato, che non poteva mancare per risolvere un problema del genere e che non poteva peraltro essere più consistente, non solo per rispettare le norme europee ma anche perché il bilancio del nostro Stato non avrebbe potuto sostenerlo. In effetti la stragrande maggioranza del peso del salvataggio delle banche italiane in crisi non graverà sullo Stato e neppure sui creditori delle stesse banche (ammesso che gli interventi previsti siano in grado di ribaltare la situazione di queste ultime) bensì sulla partecipazione delle componenti forti del sistema bancario italiano, di cui coinvolgerà conto economico, tesoreria e patrimonio. La speranza è che il sacrificio solidaristico non indebolisca più di tanto tali componenti e abbia invece gli effetti sperati, ciò che in verità non è né scontato né tantomeno automatico.
In ogni caso, al punto in cui siamo, dobbiamo mettere da parte i dubbi e le critiche e augurarci che tutte le parti in causa si diano da fare per centrare l’obiettivo di salvare le banche in crisi e di rimetterle più o meno velocemente nel mercato a fianco di quelle che le hanno salvate. Queste ultime hanno dimostrato di guardare lontano. Quelle oggetto di salvataggio dovranno invece dimostrare la determinazione necessaria per fare ciò che è richiesto per ritornare protagoniste nel mercato. E questa è la parte più difficile e complessa della risoluzione cui tendiamo e stranamente sembra che nessuno se ne preoccupi. Nessuno sembra infatti vagliare con attenzione se i piani di ristrutturazione che dovrebbero stare alla base degli aumenti di capitale, ammesso che ci siano, sono realistici e se gli amministratori sono capaci di avviarli e portarli a termine. Qui si giocherà la vera partita della risoluzione. Il resto è solo contorno e serve a poco, il che non implica un giudizio negativo su quello che si è fatto e si sta facendo. In effetti, poco è sempre meglio di niente.