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 2016  aprile 20 Mercoledì calendario

Elogio del Borsalino

Il grande capo Giuseppe, scomparso il 1° aprile 1900, non amava portarlo lamentando che gli “impediva di pensare”. Ironia della sorte, proprio quell’uomo avrebbe dato il nome alla “Rolls Royce dei cappelli”: il Borsalino. Entrato, di lì a qualche anno, nell’Oxford Dictionary quale “nome comune di cappello di feltro a falda larga”, mise su pagina la misura del successo: planetario, interclassista, iconico.
L’avventura cominciò il 4 aprile 1857 ad Alessandria, dove Giuseppe fondò la fabbrica di cappelli e, insieme, le premesse del mito, oggi rispolverato dal documentario di Enrica Viola, Borsalino City, omaggio sincero a uno dei simboli del made in Italy, fuori e dentro il grande schermo. Già, non esisterebbe il cinema come lo conosciamo senza questo cappello: vi immaginereste un Humphrey Bogart a capo scoperto sulla pista di Casablanca?
Oppure un Marcello Mastroianni capelli al vento in 8 ½? No, e a farsene una ragione non fu solo il pubblico, bensì un altro mostro sacro della settima arte: Robert Redford. Fulminato sulla via della mimesi da Mastroianni, scrisse a Vittorio Vaccarino – “Dear Vittorio, you may remember me… my name is Robert Redford” – per averne un altro, sempre nero come quello di Marcello, ma con la falda leggermente più larga.
Aveva conosciuto il nuovo proprietario dell’azienda a New York, e ora – siamo nel 1965 – terminate le riprese di Situazione disperata ma non seria a Monaco di Baviera passerebbe senz’altro in fabbrica: Redford ad Alessandria, tanto di cappello. “Nell’epoca d’oro di Hollywood tutti ne indossavano uno. Ciò che s’ignora è che questo mito nasce in una città della provincia italiana, e che per più di 125 anni – sottolinea Viola – una sola famiglia è stata a capo di questo impero fondato”.
Piccola media impresa a conduzione familiare e respiro mondiale, che cosa c’è di più italiano? Non solo il dizionario, il cappello si prese anche i titoli del cinema: l’eponimo Borsalino del 1970, diretto da Jacques Deray e interpretato da Alain Delon e Jean-Paul Belmondo (JP già ne aveva fatto emblema della Nouvelle Vague in Fino all’ultimo respiro, 1960, di Godard), e il seguente Borsalino & Co. (1974), con in mezzo la certificazione demenziale: Il clan dei due Borsalini (1971) di Giuseppe Orlandini, con la coppia Franco Franchi e Ciccio Ingrassia.
Presentato al festival di Torino, poi a Melbourne e Barcellona, pre-acquistato per la tv in Francia, Germania e molti altri Paesi, Borsalino City parte ora per un tour in sala (distribuzione Istituto Luce Cinecittà), che tocca Roma, Milano, Torino, Genova, Firenze e altre località in maggio.
Attraverso le testimonianze dei lavoratori, i contributi degli storici e i ricordi dei grandi del cinema, quali appunto Redford, Jean Claude Carrière, Piero Tosi e Dante Spinotti, “passando da Alessandria a Hollywood, si è cercato – evidenzia la regista – di colmare il divario tra l’ignoto e il glamour”, calcando la leggenda. Già, se l’abito non fa il monaco, il cappello fa il personaggio, l’attore e il regista: per Fellini era d’abitudine, per Harrison Ford una parte – per il tutto – di Indiana Jones, per il John Belushi di Blues Brothers un must. Da Fred Astaire a Warren Beatty, da Charlie Chaplin a Anthony Quinn, da Alberto Sordi a Orson Welles, a mettere la testa a posto nella creatura di Giuseppe Borsalino sono stati davvero in tanti, e grandissimi. Anche quando sparavano non per copione, ma di professione: Al Capone, vi dice qualcosa?