Corriere della Sera, 20 aprile 2016
Ai David di Donatello bene quasi tutto. Non la mancata premiazione di Zalone
Premessa: non dare un premio a Checco Zalone significa voler male al cinema italiano. David di Donatello in versione Sky Cinema. Ci voleva tanto a copiare gli Oscar, a ispirarsi a un qualche modello più alto della fiera di paese? Finalmente uno show con qualche senso e maggior ritmo, grazie soprattutto alla bravura professionale di Alessandro Cattelan. Se penso alle precedenti edizioni dei David di Donatello, lunedì sera pareva di essere in un altro Paese, nonostante la logorroica tendenza da parte dei nostri artisti a sforare. Totò, nelle autorevoli vesti del pittore Scorcelletti (Totò, Eva e il pennello proibito, 1958), affermava con risolutezza che «creare è facile, difficile è copiare». E infatti nel regno dei media il valore e il significato di parole come «originale» o «nuovo» illanguidiscono miseramente, penzolano nell’abisso virtuale. In molti casi bisogna avere solo il coraggio di copiare, ma di copiare bene.
La serata ha ancora bisogno di aggiustamenti: andrebbe un po’ «deromanizzata», bisognerebbe evitare gli interventi «creativi» di Michele Placido o le gag di Francesco Pannofino, occorrerebbe che qualcuno spingesse all’entusiasmo Valeria Golino (su, non è un cerimonia funebre!), sarebbe necessario spezzare quel circolo vizioso dei ringraziamenti (Garrone ringrazia Servillo, Servillo ringrazia Sorrentino, Sorrentino ringrazia…), si potrebbe tranquillamente fare a meno dei predicozzi finto-poetici di Roberto Saviano (spot occulto per Gomorra 2?), poi ci siamo. Oddio, se anche la platea dimostrasse un po’ più di partecipazione e meno ostilità (invidia?), tutto andrebbe meglio. Bene gli smoking, bene le clip dei Jackal, bene la produzione di Magnolia, bene la sigla finale con La cura di Battiato (ogni riferimento al cinema italiano è puramente casuale). Conclusione: ma perché l’Accademia del Cinema Italiano si ostina a non premiare Checco Zalone? Vigeva l’interdetto persino sul suo nome.