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 2016  aprile 20 Mercoledì calendario

I metalmeccanici tornano uniti, ma la fabbrica è cambiata

Siamo tornati ai tempi della Flm? La domanda è legittima perché oggi dopo otto anni i metalmeccanici scioperano unitariamente e le bandiere di Fiom, Fim e Uilm si confonderanno nei tre cortei che sono stati organizzati a Milano, Napoli e Reggio Emilia. In un Paese dove qualsiasi cambiamento è rinviato sine die si potrebbe pensare a un ritorno del «sempre uguale», i riti rassicuranti che prendono il sopravvento sulle discontinuità.
Ma è davvero così? Basta grattare dietro le dichiarazioni ufficiali per individuare qualche elemento di novità. Innanzitutto – non bisogna dimenticarlo – sta cambiando il terreno di gioco: durante la Grande Crisi le fabbriche hanno subito una ristrutturazione profonda e continuata che non si interromperà né con la ripresina né con un’eventuale ripresona. Basta leggere i lavori di un economista come Enzo Rullani attento alle trasformazioni dei distretti e dei sistemi di fornitura oppure le analisi di un tecnologo come Gabriele Caragnano per avere il senso di una fotografia in movimento.
Il contesto, quindi, muta più velocemente delle relazioni industriali e sarebbe necessario ridurre questa distanza prima che sia troppo tardi, prima che arrivi la mitica Industria 4.0. È questo il punto dal quale è partita la Federmeccanica impostando la strategia per il «rinnovamento» del contratto nazionale. Un tentativo che ha trovato l’appoggio della Confindustria e ha conquistato anche tra gli osservatori indipendenti crescenti attestati di simpatia. La scelta di fondo è spostare drasticamente il baricentro della contrattazione più vicino al mercato e più lontano da Roma e di conseguenza concedere gli aumenti salariali solo a condizione di uno scambio con redditività e produttività. Come contropartita Federmeccanica lancia due novità importanti, individua la formazione come campo di investimento prioritario da parte delle aziende e fa propria la nozione più larga di welfare aziendale includendo sanità integrativa e previdenza complementare.
È evidente che siamo davanti a una svolta che chiede al sindacato nazionale di cambiare il modello di funzionamento ma chiede alle imprese di farsi carico del capitale umano che possiedono. Di conseguenza è riduttivo catalogare la mossa dei meccanici come un ritorno dei falchi e un tentativo di azzerare il sindacato. C’è di più: è un tentativo di riscrivere delle relazioni industriali moderne in cui sia l’impresa sia Fiom-Fim-Uilm si responsabilizzano, si impegnano a creare ricchezza in prossimità della competizione e a redistribuire i vantaggi ottenuti. Non c’è da stupirsi se un sindacato che viene da anni di divisioni (una su tutti: il contratto Fiat) ha faticato a trovare una risposta convincente, tutto sommato però la reazione di gruppi dirigenti è stata composta. C’è chi sostiene come persino Maurizio Landini abbia voglia di dimostrare di essere un playmaker – e non solo un capopopolo – e abbia apprezzato la scelta di Federmeccanica di non puntare a un contratto separato, ma al di là dei retroscena è chiaro che per i sindacati si tratta di transitare in un’altra dimensione culturale e organizzativa.
Li attende un’altra stagione, non una capitolazione: anzi per i metalmeccanici che possono contare su buone strutture di base il decentramento contrattuale potrebbe rivelarsi una primavera. La Federmeccanica e la «piccola Flm» hanno dunque la chance di dimostrare al governo che non c’è bisogno di decretare su tutto ma ci sono parti sociali che sanno gestire in piena autonomia le trasformazioni e persino i conflitti. Fortunatamente un processo di questo tipo – pur difficile – passa attraverso dispositivi negoziali, c’è quindi, una volta finito lo sciopero e riposte le bandiere, tutta la possibilità di modulare quantità e tempi del cambiamento.