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 2016  aprile 20 Mercoledì calendario

In morte di Fulvio Roiter

Marco Belpoliti per La Stampa

Chimico per studi e per formazione, Fulvio Roiter, scomparso ieri a quasi 90 anni, era entrato nella fotografia da autodidatta passando per il circolo fotografico La Gondola di Venezia, alla fine degli Anni 40, luogo dove si sono formati e hanno operato alcuni dei fotografi della sua generazione, e di quella appena precedente: Monti, Berengo Gardin, Bolognini, Bresciani, Scattola. Una risposta al formalismo di Giuseppe Cavalli e del gruppo de La Bussola, altro luogo di ritrovo, discussione ed esposizione della giovane fotografia italiana. Dell’ambiente veneziano Paolo Monti è stata la figura chiave e di riferimento; sua la Mostra della fotografia italiana, realizzata nel 1952, vero punto di rottura.
Roiter, nato nel 1926, quasi vent’anni più giovane di Monti, diventa in breve un fotografo professionista e inizia a collaborare con giornali e periodici. Nel 1954 pubblica Venise à fleur d’eau, che gli dà immediata notorietà e lo orienta verso la produzione di libri illustrati, che sono stati il centro del suo lavoro, e per cui ci si ricorda immediatamente delle sue immagini raccolte in quei volumi: la gondola vista attraverso un sottoportico, i carabinieri in piazza San Marco, il medesimo luogo sotto una nevicata; e poi altre immagini della città lagunare. Nel 1956 vince con Ombrie il Premio Nadar. Roiter ha anche viaggiato parecchio: Messico, Spagna, Turchia, Costa d’Avorio, itinerari da cui ha riportato tantissimi scatti; dal 1964 in poi ha cominciato a ritrarre le popolazioni africane, con una spiccata attenzione alle cerimonie religiose e ai riti. Del 1966 è Naguane, il libro nato da quell’osservazione.
Scatti geometrici
Come definire il lavoro di questo fotografo, sempre attentissimo alla geometria dei suoi scatti? Neorealismo è un’etichetta giusta, ma non completamente vera, perché Roiter si è allontanato da quel tanto di crudo verismo che c’era nel dopoguerra nella fotografia della «realtà», per coltivare un grafismo formale che lo porta a preferire sempre l’immagine in equilibrio, o meglio: armoniosa. Se il suo lavoro è partito da quel crinale che vede, come ha scritto Roberta Valtorta, il tormentato intreccio tra amatorialismo, professione e pratica artistica, che ha avuto in Monti il suo culmine, il fotografo nato a Meolo ha proceduto verso una fotografia cui non è estranea la sua stessa formazione di chimico, l’amore per le simmetrie e per le forme. 
Nel 1978 pubblica il suo libro più famoso:Essere Venezia, premiato a Arles, opera che ha venduto 700.000 copie nel corso degli anni, uno dei libri fotografici più diffusi nel mondo. Il Carnevale veneziano, luogo di maschere, travestimenti, camuffamenti, è esaltato nella sua fotografia, che ama le feste e le maniere. Diventato famoso anche a livello internazionale, a partire dagli Anni 70, come del resto i suoi amici e colleghi - Berengo Gardin, De Biasi, Monti -, Roiter conserva tuttavia l’impronta del fotoamatorialismo, da cui proviene, realtà che ha avuto una importanza straordinaria nello sviluppare la cultura visiva italiana spesso in contrapposizione alla fotografia ufficiale, con un fitto programma di mostre, cataloghi, riviste; un fenomeno estetico che negli Anni Cinquanta ha un suo analogo in quello letterario di autori come Carlo Levi e Italo Calvino, attenti all’aspetto visivo del mondo, ha osservato Antonella Russo nella sua Storia culturale della fotografia italiana (Einaudi). Per questo Roiter ha conservato una freschezza dello sguardo, un’ingenuità che a tratti piega verso la maniera proprio per l’insistenza sulla visione edenica dei luoghi e delle persone. Quasi un paradosso: lanaïveté dello sguardo, la sua semplicità, si rovesciano in una forma a tratti convenzionale, oleografica. Questa è però stata la strada con cui ha raggiunto un pubblico vasto, ben al di là del mondo della fotografia, attraverso quei libri che trasmettono l’immagine stessa dei luoghi da lui ritratti, a partire da Venezia. Passando dal bianco e nero al colore ha conservato quel gusto per l’immagine elegante, formalmente risolta nel contrasto tra luce e ombra, tra tinta e tinta. 
I riconoscimenti
La sua stagione ultima è stata ricca di riconoscimenti, mostre ed esposizioni che l’hanno celebrato, a partire dagli Anni Ottanta, in Europa. Del 2011 è il suo libro sull’America, World Wide Center before, cui sono seguiti i ritorni a casa dedicati di nuovo a Venezia, a Burano, al Lido, come ricorda Roberto Mutti, suo fedele biografo nel breve, ma efficace, volume che gli ha dedicato nel 2012 (Fulvio Roiter, Bruno Mondadori). Nella quarta di copertina è riprodotta una frase emblematica del fotografo: «Dicono che l’abitudine distrugga l’occhio: vivi in un luogo e finisci per non vederlo più. Può darsi, ma non vale per me: mi salvano l’emozione - perché di emozionarmi sono ancora capace - e la curiosità». Una perfetta definizione di sé.



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Michele Smargiassi per la Repubblica
Aveva iniziato con scatti neorealisti, ha girato il mondo dal Brasile alla Tunisia Ma il suo nome è legato per sempre alle immagini dedicate alla città lagunare
Il profilo di Venezia, merletto di guglie e cupole nella bruma lagunare, il volto che ogni turista con fotocamera cerca di replicare e di portarsi a casa, l’ha creato lui sessant’anni fa. È morto a 89 anni Fulvio Roiter, tra i nostri grandi fotografi forse quello che più ha contribuito a diffondere nel mondo una certa immagine sognante, poetica e pittorica della città sull’acqua. Dopo di lui Venezia è stata fotografata a morte, fino a meritarsi il nomignolo di Kodezia, fino a far scrivere a Josif Brodskij che i suoi amministratori avrebbero dovuto chiedere una percentuale dei profitti ai produttori di pellicole.
Ma chi ha in mente solo il celebratissimo, imitatissimo Roiter a colori del suo secondo periodo si stupirà di scoprire che la sua Venezia d’esordio era tutta in bianco e nero: quel libro,
Venise à fleur d’eau, pubblicato curiosamente in esilio, da un editore di Losanna, nel 1954, fu il suo primo successo, e arrivò pochi anni dopo che aveva cominciato a pasticciare con l’economica Welta avuta in regalo dal papà.
Fu una congiunzione di fortunati eventi che da pochi anni a Venezia fosse nato il circolo La Gondola, che fu poi culla di grandi talenti della fotografia italiana del dopoguerra, e che il giovane Fulvio ne leggesse notizia su un foglio stropicciato di giornale. Quando si presentò con l’album sottobraccio ai maestri di quell’Olimpo del fotoamatorismo colto, dopo un’accoglienza ironica («con quel nome si diventa famosi…», alludevano all’agenzia Reuters) quelli rimasero a bocca aperta. E il timido giovane perito chimico di Meolo venne subito accolto sotto l’ala protettrice di Paolo Monti.
Eppure non fu Venezia il suo primo amore, bensì la Sicilia, e non solo quella pittoresca di fichidindia e donne in nero: Roiter aveva visto ottima fotografia, i grandi francesi e americani, da Izis a Bischof, aveva buoni maestri italiani e respirava tutta l’aria dell’epoca, non solo quella dei fotografi estetizzanti neo-crociani: cruda e “neorealista”, ad esempio, è la sua visione del minatore di solfatara che nudo spinge un carrello nell’inferno torrido della cava. Poi fu in un’Umbria di bianchi bruciati e neri fondi che scattò, in una sola giornata, le sue fotografie forse più celebri, tra cui quella dell’uomo che conduce due muli nella neve accecante, finite in un secondo libro “svizzero”,
Ombrie, Terre de Saint François, che solo due anni dopo il primo gli guadagnò in Francia il prestigioso premio Nadar: aveva appena trent’anni.
Ma come osserva il suo attento biografo Roberto Mutti, la vastissima opera di Roiter si comprende solo con il compasso, tracciando un cerchio attorno a un solo, inevitabile centro: Venezia, appunto. Un cerchio grande come il mondo: Brasile, Persia, Libano, Andalusia, Belgio, Turchia, Messico, Spagna, Irlanda, Tunisia furono tante sue mete quanti suoi libri fortunati. Alcuni troppo turistici e perfino cartolineschi secondo i critici che lo hanno confinato in un ruolo di autore “di genere”, colorista e illustratore, troppo stretto per la sua biografia, forse ignari che la sua, nutrita di cultura fotografica non banale, era una scelta deliberata di linguaggio, che il suo motto era «faccio libri per metter voglia di andare», e che per questo aveva messo a punto una sua sicura estetica della semplicità, dell’immediatezza e della suggestione. Ma questa è sempre stata la sorte dei fotografi che hanno osato raccontare con il colore, commensale scomodo alla tavola della fotografia d’autore.
Comunque quello di Roiter è stato un mondo inquadrato fra le colonne della Piazzetta, se non altro per i periodici, puntuali ritorni a casa, a pescare in Laguna nuove varianti del suo ritratto di città ideale, per nuovi libri o meglio capitoli di un solo libro.
Venezia la fotogenica, inesauribile cornucopia di immagini, Venezia fatta solo di bellezza (senza mai mostrarne il retrobottega oleoso di Marghera, per dire) era il suo bagno rigeneratore: «Dicono che l’abitudine distrugga l’occhio: vivi in un luogo e finisci con il non vederlo più. Può darsi, ma non vale per me: mi salva l’emozione».
Il suo libro più famoso, Essere Venezia, con testi del poeta Andrea Zanzotto, Mondadori glielo rifiutò perché lui lo voleva in formato orizzontale, perché così è Venezia immaginata, dal Canaletto in poi: un piatto di porcellana posato sull’acqua: «Un libro così dove lo mette in una biblioteca?». Pubblicato (orizzontale) da un piccolo editore di Maniago, quel libro arrivò alle settecentomila copie ed è candidato ad essere il più venduto libro fotografico di un solo autore.
Roiter si considerava «geneticamente programmato per fare il fotografo», la sorte lo mandò a vivere in una città geneticamente programmata per essere fotografata.