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 2016  aprile 20 Mercoledì calendario

I due migranti sopravvissuti alla strage perché hanno lavorato due mesi come animali per comprarsi il salvagente. Ora lo possono raccontare

Abbiamo lavorato due mesi come animali per comprarci i salvagente: 12 ore al giorno in una cava. E così ci siamo salvati la vita». Ossaman e Haemiad si rivedono nella foto del gommone soccorso poco prima di affondare e nei loro occhi iniettati di sangue per il sole e il sale c’è ancora tutto il terrore di chi pensa di essere agli ultimi istanti di vita.
Sono i due giovanissimi migranti seminudi abbarbicati sulla prua del gommone bianco recuperato due giorni fa nel Canale di Sicilia dall’equipaggo della nave Aquarius. Ora che sono in salvo a Lampedusa, provano a raccontare quel che è accaduto a uno dei mediatori culturali dell’hotspot dove sono stati portati insieme agli altri 108 sopravvissuti del naufragio che ha fatto sei vittime accertate e 21 presunti dispersi in mare. Dicono di essere cugini e di avere 16 e 17 anni. Vengono dall’Etiopia.
«Siamo partiti all’alba di tre giorni fa dalla spiaggia libica di Zabratah. Eravamo in 135, ci contavano uno per uno mentre salivamo. Ci avevano detto che quel gommone era nuovo, che il motore era a posto e invece dopo mezza giornata di navigazione il fondo ha ceduto. Prima ha cominciato a piegarsi a metà, poi si è aperto un buco al centro e chi era più vicino e scivolato in acqua. Tutti gridavano e cercavano di aggrapparsi ai bordi – racconta Ossaman – io e mio cugino eravamo a prua, ci siamo tenuti per mano e siamo saliti più in alto possibile aggrappandosi alla gomma. Abbiamo visto gente cadere in mare, prima e anche dopo quando è arrivata la nave dei soccorsi. Chi era al centro del gommone è stato calpestato. Quando ci hanno portato sulla nave abbiamo visto corpi che non si muovevano più».
Quei corpi, sei, non sono stati recuperati. Nelle concitate operazioni di soccorso, il gommone è andato fondo trascinandoli giù. «C’era anche un nostro amico, insieme avevamo avuto paura di rimanere bloccati in Libia», dicono Ossaman e Haemiad ora affidati alle cure dell’ispettore Maria Volpe dell’ufficio minori della questura di Agrigento. Non è facile, a meno di 24 ore dal loro arrivo, identificare i migranti, quasi tutti giovani uomini africani, poco più di una decina di donne, cinque delle quali incinte, che non hanno alcuna voglia di lasciare le loro impronte e dare i loro nomi.
I superstiti parlano della traversata e nelle loro parole ricorre il termine «inferno». Fin dalla partenza, spiega dice Zeina Ibrakim, 23 anni, etiope: «Ci avevano assicurato che la traversata era facile, la barca aveva un motore nuovo e avevamo abbastanza acqua potabile, ma erano tutte bugie...». Quel gommone, procurato da “fornitori” senza scrupoli (tunisini ed egiziani), aveva un fondo di compensato che ha ceduto sotto il peso e il movimento dei troppi migranti imbarcati. E il motore è andato presto in avaria.
Accanto a Zeina, sul gommone, c’era Lamin Tamara, 23 anni, del Gambia. «Ci hanno fatto salire su quel gommone a forza, hanno anche sparato. Ed eravamo in troppi, non c’era spazio per muoversi, tutti avvinghiati l’uno all’altro e quando, dopo poche ore di navigazione il motore è andato in avaria è successo l’inferno. Tirava vento, c’erano onde alte, il gommone veniva trascinato, un zig zag continuo. Alcuni, presi dal panico sono finiti in acqua quando ormai eravamo quasi salvi, uno è riuscito a tornare indietro e ad aggrapparsi al gommone che affondava. Ma sul fondo c’erano persone che non si muovevano piu, stavano già male e quando la barca si è spaccata sono affogati. Qualcuno provava a tenerli su ma era impossibile. Nessuno sapeva nuotare e non avevamo più forze. Non avevo mai visto il mare... e ora non voglio più vederlo. Vi prego: aiutateci, non mandateci via».
Poi Lamin interrompe la conversazione perché qualcuno gli passa un telefonino, glielo prestano così che possa chiamare i suoi familiari in Gambia: «Ce l’ ho fatta, sono stato fortunato, mi sono salvato e con me anche altri amici, ma altri no...», dice tutto d’un fiato. Non spiega quanti siano morti o dispersi. Perché? «Non servirebbe a convincere qualcuno a non partire», spiega al mediatore culturale dell’hotspot di Lampedusa. «Nel nostro paese non c’è libertà, ci è vietato radunarci in strada, basta che siamo poche persone e ci arrestano». Poi ferma il racconto, un attimo di silenzio e poi aggiunge: «Non vi chiedete perché tanti di noi siano pronti a rischiare la vita in questi viaggi per venire in Europa?».