Corriere della Sera, 20 aprile 2016
All’imprenditoria serve un’evoluzione generazionale. Parla Andrea Guerra
Sulle terrazze dell’ex Smeraldo di Milano, Andrea Guerra ha l’aria di muoversi più a suo agio che dentro Palazzo Chigi. Quel corridoio romano di quaranta passi che porta fino a Matteo Renzi lui lo ha attraversato quasi ogni settimana nell’anno in cui era consigliere del premier. Ultimamente Guerra è avvistabile molto più spesso in questo teatro trasformato in quartier generale milanese di Eataly, di cui da ottobre è presidente esecutivo. Certo con lui la distanza fra cibo e politica non è mai molta. «Mi ha colpito una frase di Carlin Petrini, il fondatore di Slow Food – butta lì Guerra, a freddo —. Dice che il piacere non è solo un diritto dei ricchi, ma di tutti. Sono concetti di condivisione, democrazia, redistribuzione che trovo molto contemporanei, belli. La vera sinistra in Italia oggi è rappresentata da associazioni come Slow Food, Emergency, Libera. Dai loro fondatori Petrini, Gino Strada, don Luigi Ciotti. È in quelle realtà che si trova più pensiero e vitalità di sinistra».
Non nella minoranza del Pd?
«Mi pare un gruppo di persone che oggi non trova esattamente la propria terra sotto i piedi».
Che impressione fa tornare senza intermezzi da Palazzo Chigi a una grande impresa?
«Sarà che arrivo con occhi nuovi, ma dico che Eataly non è classificabile con i vecchi canoni. È un’impresa nuova, sta nel mezzo fra una scuola e un negozio, un mercato dei contadini e un department store. È uno spazio che offre un’esperienza diversa. Abbiamo chiuso il 2015 con un fatturato appena sotto i 400 milioni e un budget che prevede un 25% di crescita. Nel 2016 apriamo un altro centro a New York, poi Boston, Copenaghen, Trieste e un paio negli Emirati».
Punta alla Borsa entro l’anno?
«L’obiettivo di tutti è aprire l’azienda, e la quotazione è la modalità ovvia per riuscirci. Non abbiamo una fretta esasperata. Credo che nei prossimi 12 o 18 mesi l’avremo fatto».
State diventando una piattaforma del made in Italy nel mondo. I prodotti italiani sono abbastanza competitivi?
«Assolutamente sì. E sono un made in Italy vero. Il punto è proprio qui: rappresentare qualcosa di unico e speciale, non identico alle cose degli altri. In un nostro tipico negozio americano abbiamo un migliaio di fornitori, ottocento dei quali non potrebbero mai arrivare laggiù se non ci fosse Eataly».
Allora dato che il made in Italy va così forte, non c’è bisogno di una politica industriale del governo o di attivare la Cassa depositi e prestiti controllata dal Tesoro. O sì?
«Vede, questo mondo che viviamo oggi ha distrutto le medie».
Le medie imprese?
«No, proprio le medie. La media statistica ormai è quella del pollo di Trilussa, vuol dir poco. Ci sono realtà che vanno per conto loro, altre che hanno bisogno di aiuto e altre ancora di cui dubito che ce la possano fare. E incredibilmente negli ultimi mesi stiamo vedendo sprazzi di sistema Italia».
Esempi?
«Il fondo Atlante per le banche. La ricompattazione di tante piccole iniziative nella moda. E ho visto i dodici maggiori produttori di vino assieme ad altri piccoli sedersi con Renzi e discutere di come portare l’esperienza e la cultura italiana nel mondo».
Dunque ci vuole sistema, non necessariamente intervento pubblico?
«Ci vuole sistema e maggiore imprenditorialità in ciascuno di noi. Eliminiamo gli alibi nella richiesta di intervento pubblico, poi però c’è bisogno anche di una regia del sistema pubblico nel dettare la strada e creare nuovi percorsi. Ciò significa anche nuovi investimenti, Cassa depositi, ma può anche voler dire realizzare interventi in giro per il mondo. Non saremo mai un Paese fatto da grandi aziende in termini assoluti. Ma dobbiamo avere grandi aziende in ciascun settore e nicchia, che è diverso».
Non ne abbiamo molte.
«In alcuni casi ne abbiamo, in altri no. Qui subentra il solito tema dell’imprenditore italiano, se nel lungo periodo dà la priorità a se stesso o alla sua azienda. Questa purtroppo è una domanda a cui l’imprenditore italiano – geniale, meraviglioso, creativo – difficilmente risponde con onestà».
La risposta onesta è più dividendi ai soci e meno investimenti per l’impresa?
«La vedo da un altro angolo: oggi le nostre aziende hanno bisogno di una nuova generazione. In modo straordinariamente bizzarro abbiamo assistito a un’evoluzione generazionale molto più forte in politica che nell’imprenditoria italiana. Strano, no? Tutti la chiedevano in politica, ed è successo».
L’intervento pubblico è lo strumento per accelerare il ricambio?
«È uno degli strumenti. Non penso sarebbe stato ovvio far nascere il fondo Atlante senza una serie di banche che si ponevano un concetto di responsabilità, senza la Cdp e senza un governo capace di far discutere tutti».
Atlante basterà a stabilizzare il sistema finanziario?
«È un primo straordinario strumento. Guadagnerà, e tra qualche anno capiremo quanto importante sarà diventato per il mercato del credito. A oggi non ci sono ricette magiche, ma almeno abbiamo qualche ingrediente. Poi bisognerà accelerare il modo in cui vengono recuperati i crediti in Italia e, dall’altro lato, abbiamo bisogno di un Chapter 11: una nuova procedura fallimentare. Mentre le banche creditrici entrano in possesso delle garanzie degli insolventi, è fondamentale salvaguardare l’azienda».
Anche gli ammiratori criticano il carattere irregolare e esclusivo della squadra attorno a Renzi. Condivide?
«Da un lato è vero. Ma nel momento in cui questo governo è partito non poteva far leva su molto altro. Era fondamentale creare un nucleo forte e Renzi lo ha fatto. Poi magari potrebbe allargarsi più velocemente, ma guardando la nostra storia non è stato un difetto».