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 2016  aprile 16 Sabato calendario

Confessioni di Alessandro Cattelan, che ha successo perché fa tv per chi non guarda la tv

Per stanare chi si è nascosto su internet e ha abbandonato il telecomando, Alessandro Cattelan gioca con il surreale. Per raccontare come ci riesce mostra un altro lato di sé. Preparato, concentrato, attento a non perdere per strada chi non ha mai lasciato il divano vista tv.
Epcc – E poi c’è Cattelan: lo stile spiazza, il linguaggio coccola. Lui, educato, spettinato, con le giacca glitter e il sorriso tradizionale, è il presentatore uscito dalle ceneri della tv generalista.
Come si fa a pensare la tv per chi di base non la guarda?
«Sono un utente simile a questa categoria e quando cerco me, mi trovo su Internet. Provo semplicemente a usare quel che mi interessa senza autocompiacimento. È sempre bello raccontarsi che stiamo facendo programmi alternativi, però bisogna coinvolgere».
Il primo programma che ha visto in tv?
«Il Drive in degli esordi, poi Mai dire gol, tutta roba che per i tempi e per la mia età, sono nato nel 1980, era da ridere».
Ora cosa guarda?
«Lo sport, le serie: aspetto con ansia Gomorra».
Ha iniziato come veejay. Che fine hanno fatto i veejay? Sembravano il futuro e sono durati un minuto.
«Non servono più, spacciavano idee che ora circolano liberamente. Ogni ragazzino è veejay di se stesso in rete, ma Mtv faceva numeri incredibili ed è stata una palestra e un momento centrale della tv. Non ci davano credito, eravamo un punto di riferimento».
Ora Mtv trasmette serie per adolescenti. Meglio o peggio?
«Immagino che anche oggi mandi in onda quello che serve. Allora era una rete che spostava i gusti e creava mondi e modi di dire».
Adesso chi ci riesce?
«Nessuno».
«David Letterman Show»: molti suoi colleghi ci si sono confrontati e scontrati. In Italia non ha mai funzionato.
«È un caso in cui il nome rappresenta il genere, come la Nutella. Letterman faceva un programma che in realtà va in onda su tre canali in contemporanea negli Usa. I “Late” sono tutti uguali: tazza, scrivania, due ospiti. Io Letterman come persona lo idolatro, ma c’entro poco. Come genere l’ho preso in modo onesto: ho rubato senza vergogna».
E senza problemi?
«All’inizio ho dovuto litigare per la scrivania, dicevano “abusata”. Andiamo, non è un vezzo, è grammatica di un certo tipo di racconto. È imprescindibile».
«EPCC» flirta con il surreale. Gli ospiti si fanno la parodia da soli, le lasciano accesso al loro telefono. Dove sta il confine?
«Non c’è. Nessuna regola mentre giriamo, poi in fase di montaggio gli diamo un senso. Non facciamo la tv per il nostro gruppetto, se non si capisce cambiamo».
Per esempio?
«Sistemiamo scene deliranti, magari evito battute che farei e che non sarebbero capite: l’Italia è un Paese dove tutti si offendono per qualunque cosa».
E si autocensura senza soffrire?
«Dipende, se la battuta è centrale la salvo, se è uno sfregio per fare il birichino passo oltre».
Ultima battuta scomoda che ha tenuto?
«È in corso una trattativa. Stiamo girando uno sketch sulla prostituzione ai tempi del baratto. Fa molto ridere però devo capire se può urtare la suscettibilità di non so neanche chi».
Si parla di tv al femminile con il programma Rai di Pausini e Cortellesi e gli echi di «Milleluci». Esiste un genere?
«No, l’intrattenimento è uguale per le donne e per gli uomini. E poi noi in Italia ci dobbiamo confrontare con l’estero. Nessuno può dirci nulla sulla moda o sul cibo, invece sull’intrattenimento non siamo i primi al mondo. Prendiamo il Saturday Night, ha nel cast uomini e donne e fanno ridere entrambi».
Perché la tv italiana è tutta bianca?
«L’Italia è ancora bianca come Paese. È statistica, non credo sia reticenza».
Che cosa ruberebbe a Fabio Fazio e che cosa gli lascerebbe?
«Ruberei il budget, lascerei lì la politica, mi interessa poco».
A Gerry Scotti?
«La predisposizione al lavoro. Prendo tutto, che vuoi dirgli?».
A Maria De Filippi?
«Prendo lo stile: parla poco a bassa voce, grande prossemica anche se fa un genere che non mi appartiene».
A Paolo Bonolis?
«Prenderei tutto e lascerei niente. È un vulcano».
A Carlo Conti?
«La professionalità, pure lui il suo lo fa benissimo».
Lunedì presenta la cerimonia dei David di Donatello, per la prima volta su Sky. Il presentatore dei Millennials che si confronta con un format super paludato.
«È e resta una premiazione, però posso dare ritmo. Eliminerò tutta la parte retorica: mi levo e ognuno ringrazia e ricorda per conto suo».
Ha due bimbe. Se a 16 anni le dicessero «andiamo a un talent»...
«Dura. Io a X Factor sto dietro le quinte ai casting e ho i brividi quasi tutto il tempo. Francesca Michielin, che ha vinto a 16 anni, ha alle spalle una famiglia super assennata e non avrà traumi, farà strada. Di parenti come i suoi ne incontro pochi. Nella maggior parte dei casi prego che non gli piglino il figlio, se no è un disastro».
Esce del talento vero da «X Factor»?
«Entra del talento vero, la capacità di uscire è di pochissimi».
Il filone si sta esaurendo?
«Pensavo ci fosse un tetto, ho capito che funziona come per il vino: va ad annate».
Da Tortona, la città dove è nato, a via Tortona, il centro della Milano creativa. Che viaggio è stato?
«Un’oretta facile. Era il 2001, provino per una rete musicale il 15 aprile e 1° maggio in diretta. È rimasto un viaggio andata e ritorno per undici anni. Ogni venerdì tornavo dagli amici».
E oggi il viaggio da via Tortona a Tortona come è?
«Un trasloco ogni volta. Macchina carica, caos, poi l’oasi. Ci siamo trasferiti in campagna tra galline e frutteto».
Preparazione sportiva prima di andare in onda?
«Zero, bevo delle birre».
Come, lei che faceva il calciatore.
«E mi manca il pallone. Se mi dicessero puoi presentare gli Oscar o giocare una partita nell’Inter, gioco nell’Inter senza pensarci un secondo».