La Stampa, 16 aprile 2016
Una grande mostra alla Pinacoteca Agnelli per celebrare il genio di Gae Aulenti
Come si sa, e lo sanno soprattutto i visitatori, non c’è nulla di più difficile che realizzare una bella mostra monografica d’architettura. Perché è pressoché impossibile rendere, sulle pareti bidimensionali d’una sala d’esposizione, la vitalità viscerale e tridimensionale d’un pensiero progettuale, nonostante si sprechino fotografie, progetti, alzati, maquettes ed altri ritrovati-sotterfugi classici. Perché manca ogni volta la linfa vitale del costruire ultimato, oppure solo tentato, e soprattutto l’impatto vero della realizzazione, che buca comunque o ricuce un contesto urbano. Ma questa volta, sin dalla prima sala, che ti reimmette nella grande casa-piroscafo-atelier di Via San Marco, a Milano (a pochi passi da dove Verdi aveva composto il Requiem ed allora ancora scivolava l’acqua navigata del Naviglio) con una gigantografica che è parlante e riassuntiva, ti par d’esser ancora con lei. Spintonato dalle sue interrogazioni apparentemente brusche ma dolcissime – provocati, tutti, sull’attenti ironico d’una truppa divertita, dalla sua curiosità contagiante. Curiosità golosa, caparbia e spinosa, rude, ma solo superficialmente perentoria. Aggressivamente provocante, ma rotta subito da quella risata perplessa e grufolante, che qui ritrovi in molte fotografie, che accompagnano il defluire della mostra, sin da quando lei depone l’originario caschetto, alla Louise Brooks, d’un infallibile scatto di Mulas. Che la isola, sopra un’aureola solarizzata, che orchestra tutta la panoplia diligente degli strumenti necessari al suo destino di designer.
La curatrice
Il merito di questa mostra, accogliente ed amorosa, severa nei tratti e squadrata, come era lei, ma anche, nelle fibre segrete, calorosa ed affabile, va a quella nipote, Nina Artioli, oggi architetto in carriera, che però qui vediamo già fotografata, accanto alla nonna premurosa – puntiforme cappuccetto rosso, con casco da operaio ed una falcata galoppante, tutta di famiglia – in visita alle prime rovine della Gare d’Orsay. La Ga(r)e d’Orsay, come scrive qualche amico, sulla grande tabula gratificatoria, che le regalano, in occasione del vernissage del museo, e ci sono ovviamente tutti, da Vittorio Gregotti, che ha studiato insieme a lei con l’amatissimo Rogers (ma non ci sono fotografie a documentarlo. Al tempo, guai questa confidenza così cameratesca!) e poi i sodali d’una vita: la sorella Olga, la figlia Giovanna Buzzi, costumista insieme con lei, l’amica collaboratrice Monique, Inge Feltrinelli, il pittore Adami, Arbasino, Pier Luigi Cerri, che avrebbe curato tante grafiche di memorabili mostre a Palazzo Grassi (bei tempi!) e già qui, piccolissima, la Nina, con una grafia pantografata, che fa il vuoto intorno a sé.
I progetti irrealizzati
Insomma: sì, certo, mostrare i risultati, i «monumenti», l’ufficialità, ed anche i progetti non realizzati, e con gran dolore, come il disegno originario per il Museo di Barcellona, che avrebbe voluto insinuare piccole isole d’acqua, entro la grande sala di rappresentanza. Scandalo! Magari anche, qui e là, l’ombra di un Mitterrand di sfuggita, o d’un Jack Lang, ma il vero filo saldo, che sutura fortemente le opere, è quello dell’amicizia vera, dei collaboratori davvero consustanziali, oppure i complici geniali di miracolati «misfatti» teatrali. A partire soprattutto dal simbiotico Luca Ronconi. Che si guadagna una sala, per gli indimenticati spettacoli della Scala, di Pesaro, o del Frabbricone di Prato: dallo Zar Saltan al Calderon di Pasolini, dalla Torre al realmente mitico Viaggio a Reims. Con Abbado ed una miriade di prime donne del canto, tutti in sala, a far corona zitti al suo raccontar spazi ed immaginar scene.
Il senso del costruire
Perché questo era in fondo il suo senso del costruire: edificare i suoi dubbi, esibendoli, mostrare le sue perplessità, solo all’apparenza aggredendo il contesto, scuotendolo, con forme forti e violente, di stentoree tinte industriali: il rosso lamiera, che fece indignare il tremulo magnate giapponese, che abitava in faccia al suo Istituto di Cultura italiano, perché gl’impediva di delibare il rosa delicato dei fiori di ciliegio. Saltando sempre il momento lirico degli schizzi: lei era pragmatica, concreta, «l’architettura è un percorso, tra pentimenti e precisazioni, memoria e ripensamento». Il vampiresco Pipistrello, che si fa lume da museo, ed ha le forme agguerrite d’un bastione militare di Vauban o di Francesco di Giorgio Martini. La lampada da tavolo, che pare un Rimorchiatore, ritagliato dalla pop-copertina di Yellow Submarine, e certo qualcosa di armato, di macchinoso, trascina con sé.
La casa del collezionista
Scale che diventano case, un costruire che esige comunque una reazione, anche di sconcerto, praticabili da teatro, che attraversano i suoi interni, come il suo sguardo stellato. Che ci fruga ancora dalle pareti, sotto il taglio mascolino dei capelli volitivi. E l’infrenabile ironia, che nella casa d’Umbria le fa girare filmini, che ricordano quelli casalinghi di Magritte, o di Man Ray e Duchamp, per quel nobile mecenate, che era il Visconte di Noailles. Che forse per lei s’identificava con l’avvocato Agnelli, di cui scopriamo qui la segreta Casa del Collezionista («Nel 1969 i miei nonni – ricorda oggi Ginevra Elkann – le commissionarono l’appartamento a Milano, dove Gae Aulenti poté sperimentare un uso della luce innovativo, che legasse l’architettura all’arte») ove i Balthus e i Lichtenstein si riflettono doppi nel soffitto specchiato. Perché architettare, per lei, era anche dialogare con gli amici artisti: Christo, Oldenburg, Tapiès e Boetti, che la provocava: cara Gae Auveloci!