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 2016  aprile 19 Martedì calendario

Quando gli sfollati erano gli europei

È di grande attualità la migrazione di
 enormi masse di persone da Paesi poveri e in 
guerra verso l’Europa.
 La memoria torna però all’ultimo biennio
 della Seconda guerra mondiale in Italia, e in particolare al periodo dall’8 settembre
1943, data dell’armistizio.
 Ci trovammo tra due fuochi: da una parte gli Alleati 
sbarcati in Sicilia, e i tedeschi che ci invasero da nord. 
Non ricordo però cospicui esodi verso 
la Svizzera o la Spagna, unici Paesi vicini e non 
coinvolti nella guerra. Non voglio mettere in dubbio la disperazione 
e le necessità della gente che arriva da noi, ma crede anche lei 
che non si sono mai visti prima interi Paesi svuotarsi, anche 
se messi alla prova da condizioni durissime?
Ardengo Alebardi

Caro Alebardi,
Durante un conflitto le popolazioni civili fuggono generalmente in due circostanze: quando sono espulse con la forza, come nel caso dei greci da Smirne nel 1922 e dei kosovari albanesi durante la guerra del Kosovo nell’estate del 1999; oppure quando, nella terra in cui abitano, nessuna autorità è in grado di conservare l’ordine e garantire la sicurezza. In questo secondo caso si fugge, in altre parole, per salvare la vita o sottrarre i propri beni, per quanto possibile, ai saccheggi e alle spoliazioni. È questo il caso della Siria, dell’Iraq e di alcuni Paesi africani.
In Italia, fra il settembre del 1943 e l’aprile del 1945, questi casi furono limitati nello spazio e nel tempo. Vi furono gli sfollati che si allontanavano da un campo di battaglia o lasciavano le città frequentemente bombardate per cercare riparo in campagna. Il fenomeno divenne particolarmente visibile a Roma, quando le sue caratteristiche di «città aperta», quindi teoricamente immune da azioni militari, attrassero profughi, soprattutto nelle fasi in cui, dopo l’8 settembre, i tedeschi riuscirono a rallentare l’avanzata delle truppe alleate. Molti trovarono alloggio nell’enorme palazzo della Farnesina, nei pressi del ponte Milvio, che il regime aveva costruito per installarvi la segreteria del partito fascista. Quello che negli anni Sessanta sarebbe diventato il ministero degli Esteri della Repubblica, fu per molti mesi un gigantesco accampamento dove venne installato, per gli abitanti, persino una specie di mercato rionale.
I più importanti movimenti di popolazione si verificarono verso la fine della guerra nelle regioni dell’Europa centro-orientale di fronte alla travolgente avanzata dell’Armata Rossa. I tedeschi fuggivano dalla Prussia orientale e dalla Pomerania, i sudeti dalla Cecoslovacchia, i sassoni dalla Transilvania, i croati dallo Stato nazionalista creato durante la guerra. Altre nazionalità erano rappresentate dalle unità militari di volontari stranieri che avevano combattuto con la Wehrmacht e dai detenuti dei campi di concentramento, liberati dalle forze delle potenze vincitrici durante la loro avanzata. Per accogliere questo grande esodo di «displaced persons» (persone in fuga senza dimora) furono organizzati nuovi campi che restarono aperti sino all’inizio degli anni Cinquanta.
Il quadro non sarebbe completo, caro Alebardi, se non ricordassimo i 350.000 istriani, fiumani e dalmati che arrivarono in Italia dopo la fine della guerra. Quelli che s’imbarcarono a Pola per Ancona nel 1947, quando il regime di Tito li costrinse a scegliere fra la naturalizzazione e la partenza, non hanno dimenticata l’ingrata accoglienza alla stazione di Bologna dove i ferrovieri comunisti minacciarono uno sciopero, se il «treno dei fascisti» non fosse immediatamente ripartito.