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 2016  aprile 19 Martedì calendario

L’Italia vista dai turisti, che sono sempre di più ma restano sempre meno

Una delle vittime più illustri fu lo storico dell’arte Bernard Berenson: dedicò parte della sua vita al Rinascimento italiano e a pittori come Piero della Francesca, nel 1906 acquistò una villa sulle colline di Fiesole e trascorse il resto dei suoi anni come un perfetto fiorentino, caratteraccio e intransigenza accademica compresi. Il batterio attecchì anche in Gore Vidal, un altro americano e irascibile: visse trent’anni tra Roma e Ravello, scandagliò la politica e l’antropologia dell’impero capitolino (il suo Giuliano, dedicato al misterioso imperatore pagano, resta uno dei libri meno conosciuti e più illuminanti) e si ammalò di italianite. A tal punto che volle entrare a far parte della Pro Loco della cittadina sulla Costiera amalfitana e, quando salì per la prima volta sulla terrazza del suo attico romano, a Largo Argentina, assorto davanti a un tempio in rovina allargò le braccia e esclamò: «Quale posto migliore per assistere alla fine del mondo?».L’italianite ha un decorso rapido e ineluttabile, ha infettato e talvolta reso immortali migliaia di artisti, scrittori, musicisti, sin dalle campagne di conquista di Carlo VIII, quando il Valois scese a prendersi «les Italiens», un plurale che includeva non solo una divisione territoriale, ma anche una molteplicità di valori: la grandezza di Roma, la raffinatezza bizantina, i lacerti della civiltà greca e l’apparato politico sociale dei longobardi. L’italianite è subdola, perché fa sì che il contatto con il nostro Paese susciti ben più di una semplice e scontata ammirazione per la bellezza, per la storia (eccetera): è come se nello straniero affiorasse un istinto che vaga tra possesso e protezione, amore e insieme rabbia cieca per quelle cose che non funzionano.
Come se, dal condottiero quattrocentesco allo scrittore «adottato» fino al semplice turista di Brema, nascesse una voglia incontenibile di «far parte della famiglia», di diventare italiani, con tanto di diritto di critica, un tratto che ha descritto Alberto Arbasino in uno dei suoi romanzi più felici, Fratelli d’Italia, del 1963: «Non si riescono mai a capire questi innamorati ostinati dell’Italia: con dei sensi probabilmente diversi dai nostri. Questo viene davvero continuamente, appena può, magari facendo dei viaggi tremendi in treno e dorme in chissà quali pensioni fffetide». Un inglese di Manchester come lo scrittore Tim Parks si è ammalato al punto di diventare un ultrà dell’Hellas Verona.
Ripartire «con gli occhi degli altri»Così, partendo da questo «batterio» che ha prodotto capolavori come le opere in italiano di Mozart o la riscoperta dell’arte classica negli studi del tedesco Winckelmann, abbiamo deciso di aprire questa seconda parte del viaggio «Il Bello dell’Italia» (un percorso fatto di inchieste, reportage e dorsi speciali sia sul quotidiano che su Corriere.it, viaggio condiviso con partner come Fondazione Italia Patria della Bellezza) mettendoci nei panni di chi arriva da noi, guardandoci con gli occhi degli altri. E le ultime statistiche sui flussi turistici, specie quelli legati all’arte, sono in chiaroscuro, come se rispondessero a quella febbre altalenante tra amore e odio tipica degli innamorati: i dati de «Il viaggio in Italia» (ricerca di GfK Eurisko per Fondazione Italia Patria della Bellezza, del settembre scorso) dicono che sì, gli stranieri ci amano «moltissimo» (il 49% si dice altamente soddisfatto della vacanza, parecchio al di sopra del 40% che ha promosso la Francia), però le ultime tabelle diffuse da The World Travel & Tourism Council (WTTC) non lasciano dubbi. L’anno scorso, rispetto al 2014, siamo scesi ancora nella classifica dei Paesi che riescono a trarre profitto dai visitatori; eravamo settimi al mondo per contributo del turismo puro al Pil, ora siamo all’ottavo posto, con 76,3 miliardi contro i 488 degli Usa.
Non solo. Le statistiche recenti di Confturismo e Ciset dicono che sì, tra il 2001 e il 2015 gli arrivi in Italia sono aumentati del 50%, raggiungendo la soglia di 53 milioni, però è diminuita la permanenza media: da 4,1 a 3,6 giorni, con una perdita di 38 miliardi di entrate valutarie derivanti dal turismo internazionale, dal 2001 all’anno scorso. Questo nonostante il fatto che restiamo in testa nella classifica di Travel Index sui posti desiderati dai turisti. Insomma, l’Italia è come una bellissima donna che è bramata da molti ma che alla fine resta sola, perché difficile da frequentare e dunque superata da altre donne forse meno affascinanti però meno complicate. E l’italianite? Che ruolo può rivestire in questo scenario?