La Stampa, 19 aprile 2016
Intanto Enrico Letta, sornione...
Nel Pd l’hanno battezzata la guerra tra il gatto persiano e il gatto selvatico. Essendo il primo Enrico Letta, il secondo Matteo Renzi. Il selvatico pensava di essersi tolto di mezzo il persiano che, dopo essere stato accompagnato al portone di Palazzo Chigi senza tanti complimenti, è migrato a Parigi per dirigere il prestigioso Istituto di studi politici. Lì ha cominciato, con tutta la calma che si deve a un felino di razza, a mutare il pelo e affilare le unghie per diventare anche lui un po’ selvatico.
Matteo lo osserva, lo scruta, studia le mosse di Enrico, ma lo snobba, convinto com’è che tutti i potenziali anti-Renzi siano troppo deboli per le sue grinfie. Non lo impensierisce Michele Emiliano e non crede che nemmeno il suo predecessore possa insidiarlo. Soprattutto se Letta pensa di sfidarlo al congresso del Pd nel 2017. Cosa che l’ex premier non farà: sarebbe un errore da principianti perchè Renzi è troppo forte nel partito. L’appuntamento al quale guarda l’ex allievo di Beniamino Andreatta sono le politiche del 2018. Prima ci sono due passaggi da far tremare i polsi: le amministrative di giugno e il referendum sulla riforma costituzionale. Il centrodestra è competitivo a Milano con la candidatura di Stefano Parisi; i 5 stelle lo sono a Roma con Virginia Raggi. Cosa succederebbe se Renzi perdesse nelle due città? Arriverebbe in pompa magna, come lui suppone, al referendum?
Il persiano inselvatichito aspetta sornione e non farà alcuna mossa congressuale. Assisterà alla lotta nel Pd che altri ingaggeranno con Matteo. Aspetterà le politiche del 2018: lì si capirà se ci saranno le condizioni per lanciare una candidatura alla premiership oppure, se queste condizioni non ci saranno, attenderà l’esito del voto. Un’eventuale sconfitta di Renzi, propiziata dalla nuova legge elettorale (l’Italicum) che al ballottaggio non prevede apparentamenti, farebbe suonare l’ora di Letta. «Troppo giovane per fare la riserva della Repubblica, perfetto come risorsa di un riformismo serio e non demagogico», osserva il senatore Miguel Gotor, vicino a Bersani di cui Letta era il vice.
Enrico non scarta mai verso posizioni radicali, di minoranza Dem. Bordeggia le scelte renziane. Dice che voterà la riforma costituzionale anche se è «perfettibile: supera il problema italiano del bicameralismo». Giudica il Jobs Act «un passo avanti però non sufficiente». Il “Migration compact” proposto a Bruxelles del governo Renzi? «Convincente e giusta». Poi però, quando si parla di Pd tira la zampata.
L’altra sera a “Che tempo che fa” ha spiegato di vedere il partito in grande difficoltà. «Tutte queste divisioni, questo essere tutti contro tutti, fa male al Pd e all’Italia. Al Paese non serve questa continua sfida all’Ok Corral. Serve unire le forze di tutti». Ecco, Letta si pone già come il grande pacificatore rispetto ai «raid selvaggi» del gatto di Rignano sull’Arno. Matteo fa campagna per l’astensione sul referendum che vuole fermare le trivelle ed Enrico dice invece va a votare. Guarda la politica da Parigi e intanto apre in Italia una “Scuola di politiche” rivolta ai giovani. A lui guarda chi è travolto dallo schiacciasassi sempre in moto a Palazzo Chigi, ma anche coloro che cominciano a pensare che Renzi stia rischiando l’osso del collo. E che quindi pensano a un paracadute riformista di levatura europea. L’altro giorno, alla Trilaterale (organizzazione non governativa fondata nel 1973 da Rockefeller) riunita a Roma c’erano i super renziani Maria Elena Boschi, Andrea Guerra e Yoram Gutgeld. Ma è stato notato da occhi attenti che Letta era il più ricercato: tutti volevano parlare con lui.