Il Messaggero, 19 aprile 2016
Il mercato dell’arte si sposta ad Abu Dhabi
C’è l’Islam fanatico e oscurantista (l’Isis per intenderci) che l’arte la detesta e la distrugge, specie se considerata di matrice cristiana e occidentalista. Ma c’è anche l’Islam conservatore e ortodosso (quello delle petromonarchie della zona del Golfo) che questa stessa arte la finanzia, la protegge e la vuole per sé. I legami – politici, economici – tra quest’ultimo e il primo non sono, a giudizio di molti analisti esperti, propriamente cristallini. Ma proviamo a far finta di nulla e chiediamoci perché ad Abu Dhabi, ad esempio, abbiano deciso di investire centinaia di milioni di dollari per creare delle sedi distaccate del Guggenheim e del Louvre. Passione per il bello o affari? Più semplicemente, la capacità di progettare il futuro a misura delle proprie ambizioni e delle proprie sterminate risorse economiche.
TRASFORMAZIONI
Abu Dhabi è la capitale degli Emirati Arabi Uniti, è un’isola stretta tra il deserto e il mare ed è considerata la città più ricca del mondo (non ha nemmeno due milioni di abitanti, la gran parte dei quali lavoratori immigrati). Fa impressione ricordare che sino a pochi decenni fa qui abitava, in condizioni di grande povertà, una popolazione d’origine beduina dedita alla pastorizia e alla raccolta delle perle. Ma la scoperta dei primi giacimenti petroliferi, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, ha cambiato tutto. Nel suo sottosuolo si trova ancora oggi il 9% del greggio mondiale e il 5% dei giacimenti conosciuti di gas naturale.
Una ricchezza immensa, ma destinata ad esaurirsi (si dice entro il 2100). Emiro per quasi quarant’anni, dal 1966 al 2004, Zayed bin Sultan Al Nahyan – il padre della patria il cui enorme ritratto campeggia all’angolo tra le Etihad Towers, simbolo architettonico della città, e l’inizio dell’interminabile lungomare di Abu Dhabi, la Corniche Road lunga otto chilometri – ha trasformato un villaggio in una metropoli avveniristica: pulita, ordinata ed efficiente. Ma i suoi successori hanno capito che non basta costruire grattacieli sempre più alti o investire in giro per il mondo i proventi del petrolio (peraltro sempre più bassi da quanto il prezzo del barile è crollato).
Da qui la scelta, strategica e un tantino visionaria, di fare di Abu Dhabi non solo un centro dell’high-tech e della finanza ma una capitale mondiale dell’arte, della moda e del design. Se la vicina Dubai, sempre più congestionata dal traffico e in continua frenesia costruttiva, si è votata al divertimento di massa e al turismo pacchiano sino a diventare una specie di Las Vegas araba, Abu Dhabi ha deciso di puntare sul turismo colto e più in generale sulla qualità della vita: cultura e salvaguardia ambientale, godimento intellettuale ed energie rinnovabili, relax psico-fisico e lotta all’inquinamento.
I SIMBOLI
Il simbolo di questo progetto di rinnovamento è l’isola di Saadiyat, lontana cinquecento metri dalla costa: un enorme cantiere – popolato di manodopera in prevalenza asiatica e indiana, sottopagata e costretta a turni di lavoro massacranti come ha spesso denunciato Human Rights Wacht – dove sorgerà un immenso distretto culturale e artistico. Cinque musei avveniristici affidati ad altrettanti architetti di fama internazionale, oltre ad alberghi, centri commerciali e residenze di lusso, per un investimento complessivo di 76 miliardi di dollari.
Jean Nouvel ha progettato il Louvre Abu Dhabi: un gigantesco carapace dal diametro di 180 metri, esteso su una superficie di 24.000 metri quadri, che per dieci anni vivrà dei prestiti (concessi a caro prezzo e non senza polemiche in patria) del gemello parigino, per poi diventare un museo dell’arte universale dotato di un’autonoma collezione. Il Guggenheim Abu Dhabi è stato invece affidato a Frank Gehry, che ha ovviamente riprodotto, ma su scala molto più grande, le forme coniche dell’omologo di Bilbao: sarà lo spazio dedicato all’arte moderna e contemporanea.
La scomparsa Zaha Hadid si è occupata del Performing Arts Centre, un sinuoso edificio affacciato sul Golfo Persico dove verranno ospitati una sala per concerti e quattro grandi teatri. Il giapponese Tadao Ando ha avuto l’incarico per il Maritime Museum, dedicato appunto al mare. Norman Foster ha infine disegnato quello che sarà il cuore simbolico-architettonico del distretto: lo Zayed National Museum Abu Dhabi, intestato allo sceicco Zayed, fondatore e presidente degli Emirati Arabi Uniti a partire dallo loro costituzione nel 1971. Oltre ad un mausoleo dedicato a quest’ultimo, il centro – composto da cinque torri d’acciaio altre sino a 125 metri che riprendono la forma delle ali del falco – ospiterà collezioni, documenti e materiali sulla storia e le tradizioni delle popolazioni arabe del Golfo.
LA SCOMMESSA
Sarà davvero, una volta completato, il centro culturale più grande e prestigioso del mondo? E quanti visitatori richiamerà, si chiedono quelli che lo criticano come un progetto megalomane? In realtà, Abu Dhabi è già una meta turistica sempre più ambita: le presenze nel 2015 hanno superato i 4 milioni, con una crescita del 18% rispetto all’anno precedente (i soli visitatori italiani sono aumentati del 26%). E la sua offerta culturale è già di altissimo livello, tra festival cinematografici, concerti, mostre d’arte che si succedono a ritmo continuo. Proprio in questi giorni è in corso (terminerà il 30 aprile) il sofisticatissimo e mondano Abu Dhabi Festival: musica classica, teatro, danza, cinema, con la partecipazione ogni anno dei più grandi artisti del mondo. Lo dirige, a sfatare certi luoghi comuni sul mondo arabo, una donna, Hoda Al Khamis Kanoo: padre saudita, madre siriana e studi in letteratura francese e storia dell’arte a Parigi. E proprio la Francia è la nazione ospite dell’edizione di quest’anno. Lo stesso onore riservato all’Italia in occasione della ventiseiesima Fiera Internazionale del Libro che si aprirà il prossimo 27 aprile presso il National Exhibition Centre. E dove è prevista la partecipazione di molti nostri scrittori: da Michela Murgia a Valerio Massimo Manfredi, da Melania Mazzucco a Nicola Lagioia. Si dirà maliziosamente che tanta frenesia e creatività culturale al caldo torrido del deserto dipendano solo dai lauti budget concessi ad architetti, artisti e designer dai ricchissimi emiratini. Ma è una consolazione nel segno della supponenza. Ad Abu Dhabi si guarda al futuro. Da noi ci si contenta di rimestare il passato.