la Repubblica, 16 aprile 2016
Parlando con Tardelli del famoso urlo e di molto altro
Ha giocato, amato, segnato. E poi ha urlato. Per sette secondi. Tutta la sua vita è sparita dentro quel momento. 175 fotogrammi. Ma se Munch resta nel quadro, Tardelli dopo 34 anni corre ancora. Erano quasi in 37 milioni in Italia davanti alla tv quella domenica di luglio dell’82. Ma prima e dopo quell’urlo c’è molto: vita, tre mogli, due figli, avventure, vigilie, incontri e scontri, vecchio e nuovo calcio, allenatori mitici, pipe che si spengono alle cinque di mattina, panchine anche in Egitto e in Irlanda. Il libro Tutto o niente (Mondadori), esce il 19 aprile a doppia firma: Marco e Sara Tardelli. Padre molto riservato che si racconta alla figlia, giornalista, che gli tira fuori le emozioni. E figlia, oggi 37enne, che chiede conto al padre: ma quella volta con Moana è vero che ti ha dato un voto alto? Il libro è dedicato: «Alle mie famiglie». Perché a 62 anni l’amore si nutre di insiemi e non di esclusioni.
Lei ha smesso a 34 anni e si è messo in fila.
«All’ufficio postale per pagare le bollette. Prego Tardelli, passi avanti, mi diceva la gente, per farmi una gentilezza. Ma io non volevo, era ora di essere uno qualunque, di stare in coda. Quando smetti di giocare non devi recriminare: non meriti diritti speciali, nessuno ti deve niente. Conta anche avere amici veri che non ti illudono. Tutti parlano di Totti, ma si sono scordati Bearzot, avrebbe meritato meno oblio. In Italia ti celebrano da morto, ma prima ti mettono da parte, soprattutto se sei ingombrante».
Si aspettava Blatter e Platini condannati, la Fifa così malmessa, Infantino nella lista Panama?
«No. E continuo a pensare che Platini non sia un mascalzone, forse solo un po’ superficiale. L’hanno usato. Rendo merito a Maradona, gli hanno dato del pazzo e drogato, ma lui quelle cose su Blatter e la Fifa le diceva vent’anni fa. Quando mi fanno notare che i campioni dello sport hanno solo l’intelligenza dei muscoli io dissento. Se sai vedere oltre in campo, quella luce resta anche per altro. Ho sempre pensato che Totti sarebbe diventato il Bobby Charlton della Roma».
È un invito a lasciare?
«Totti non deve dimostrare più niente a nessuno. La sua grandezza non è in dubbio. Forse poteva vincere di più, ma è un campione compiuto. Come Charlton è il simbolo del Manchester United, dove è rimasto con altri incarichi, per Totti vedo lo stesso ruolo nella Roma. Uno come lui non smetterà mai di essere capitano. Ma credo che ora sia un po’ impaurito di lasciare una corazza. Certi orgogli sono inutili: meglio finire bene a 39 anni piuttosto che trascinarsi a 40».
Il Leicester in testa è una favola inglese.
«No. È una realtà che potrebbe essere anche italiana con un sistema più equilibrato di diritti tv. Smettiamola però di chiamarla Cenerentola. Il proprietario è un miliardario thailandese, e la stagione scorsa il Leicester fatturava più del Napoli e meno dell’Inter. Non stiamo parlando di una capitale, ma della decima città inglese».
Lei come vice di Trapattoni ha allenato l’Irlanda.
«Per cinque anni, mi sono trovato benissimo. Lì e più in generale nel Regno Unito la partita finisce al 90’. Noi forse siamo più professionisti, e abbiamo avuto difficoltà nel fare capire che anche se devi portare la moglie dal ginecologo, non puoi saltare l’allenamento. Ma stadi, pubblico, atmosfera restano di un altro pianeta. Ricordo Tevez che con il Manchester United giocava contro il West Ham, sua ex squadra. Per tutto il riscaldamento i tifosi del West Ham lo hanno applaudito, ma appena iniziata la partita l’hanno fischiato. Da quel momento era un avversario come gli altri. Mi brucia ancora la qualificazione al mondiale 2010. Vincevamo 1-0 sulla Francia ai supplementari quando Henry fece quel fallo di mano. Sono sicuro che se l’arbitro glielo avesse chiesto Henry l’avrebbe ammesso. Poi girò voce che l’Irlanda era stata ricompensata con 5 milioni di euro».
Sembra uscito fuori dal giro, procuratore sbagliato?
«Assenza di procuratore, direi. Non ce l’ho. Ma allenare, se c’è un progetto serio, mi interessa ancora».
In Italia sulla panchina dei club non ha avuto fortuna.
«Diciamo pure che ho preso delle sberle. Da allenatore dell’Inter un 6-0 dal Milan per cui per settimane non mi sono fatto vedere in pubblico. Era l’anno dello scooter scaraventato giù dal secondo anello di San Siro. Però da tecnico lo ammetto: sbagliavo a dare confidenza ai giocatori, li consideravo miei ragazzi, non bisogna, è giusto avere un distacco. Ora l’ho capito».
Diserta gli stadi.
«Non ci vado più da anni. Da un derby romano. Quello che ho visto in tribuna mi ha disgustato. E anche spaventato. Facce stravolte, insulti violenti, animi vol- gari. Io farei vedere quelle immagini ai loro figli e chiederei loro se quello è un uomo. La Thatcher in una notte ha fatto sparire gli hooligans, noi ogni partita subiamo ancora gli ultrà. La tolleranza zero non c’è, nemmeno per chi è nel calcio e scommette sul risultato. Io li radierei».
Lei che tipo di padre ha avuto?
«Operaio all’Anas e nel tempo libero contadino che vendeva pecorino. Se a Madrid ho urlato tanto, anche lui con me non scherzava: non voleva giocassi a calcio, preferiva scegliessi un mestiere serio, il diploma di ragioniere l’ho preso per lui. Io ho giocato per passione, mai pensato di finire in nazionale, il mio sogno era di meritarmi un posto nel Pisa, squadra della mia città. Noi non pretendevamo molto, e tutto ci sembrava molto. Mi chiedono: ma tu nel calcio di oggi saresti ancora competitivo?».
Risponda.
«Sì, senza problemi. Ma non solo io anche Rossi, Zoff, Mazzola. Tutti i grandi. Oggi nel campionato italiano la qualità non è aumentata, anzi è molto calata. I ragazzi frequentano le accademie del calcio e i genitori pagano soldi nella speranza di venire ricompensati da guadagni futuri. Non sognano il passo seguente, ma subito il grande palcoscenico. Io avevo conati di vomito prima di entrare in campo e non dormivo di notte dai dubbi su me stesso».
Boniperti alla Juve le impose il look.
«Mi disse: tagliati i capelli, togli collanina e braccialetto, e poi torna da me. Quando nell’82 dopo il mondiale vinto, io, Rossi e Gentile ci ribellammo a firmare in bianco il rinnovo del contratto, ci fece la guerra, ma si divertì anche. Lui dovette cedere un po’, noi anche. Resta un grande presidente».
Non fu Magath nell’83 a scippare la Coppa Campioni alla Juve.
«No. Ci suicidammo da noi. Eravamo allo stadio già tre ore prima e questo ci sfinì. Per la prima volta c’erano tifosi che entravano e uscivano dallo spogliatoio, tutti si rallegravano, era fatta. Come no?».
Dura confessare di Moana a sua figlia?
«No perché Sara e Nicola capiscono le mie timidezze e sono sempre molto protettivi. Non ho scritto il libro per vendetta contro qualcuno, ma perché penso che anche nelle difficoltà tutto debba stare assieme se fa parte di noi. Questa in fondo è stata la grande lezione di Bearzot: comunista e credente».