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 2016  aprile 16 Sabato calendario

La Repubblica Ceca vuole essere chiamata Cechia

Non poche persone sognano di cambiare nome: questione d’identità. Ma adesso accade a uno Stato nel cuore dell’Europa, antico come le sue università e culla di svolte tecnologiche, dalla lente a contatto al motore Porsche. La Repubblica Cèca infatti da ieri ha deciso di chiamarsi “Cèchia”. Così, in italiano, oppure Czechia in inglese, Tschechien in tedesco, Tchéquie in francese, Cesko in lingua originale.
«Non è bene che un paese manchi di simboli o di un suo nome chiaro, immediato», dice il ministro degli Esteri Lubomir Zaoralek. Finisce così una generazione di timidezza nell’autodefinirsi come nazione: quando nel 1993 la Cecoslovacchia decise pacificamente di dividersi, a Bratislava nacque esplicitamente la Slovacchia, a Praga solo la fredda definizione ufficiale, Ceska republika.
Altri paesi sono già stati ribattezzati. Ma per segnare la fine del dominio coloniale, come l’Africa del Sudovest divenuta Namibia, o l’Alto Volta oggi Burkina Faso, ‘Terra degli uomini forti e giusti’. Oppure per arbitrio politico: Gheddafi trasformò la Libia in Jamahiriyah, la giunta birmana inventò Myanmar, la Rhodesia dopo la fine del dominio razzista bianco divenne Zimbabwe. Il caso cèco no, è diverso: l’understatement è nel dna del popolo di Franz Kafka e Milan Kundera, Martina Navratìlovà e Vaclav Havel. Persino l’inno nazionale non esalta «figli della patria, è arrivato il giorno della gloria», né la nazione che «s’è desta», né prega «Dio salvi la Regina»: «Kde domov muj», dov’è la mia casa?, canta dubbiosa la prima strofa. Se lo leggi tradotto, non pensi che quello Stato chiamato Cecoslovacchia, portato all’indipendenza da Masaryk col crollo degli Asburgo, fu ai vertici di cultura e tecnologia e sesta potenza industriale del mondo negli anni Venti e Trenta, fino all’invasione nazista. Paese senza febbri nazionaliste, i cui eroi sopravvivono nell’ombra come il soldato pacifista Svejk, oppure (Dubcek, Havel o il giovane Jan Palach suicida col fuoco contro i panzer russi) sacrificatisi in silenzio.
«A nuovi amici stranieri, mi presento come praghese», afferma Jiri Pehe, ex consigliere di Havel leader della rivoluzione di velluto del 1989. «Se mi definisco cèco molti pensano a un’ex repubblica jugoslava. E con un paese senza nome la crisi d’identità ti cattura». O peggio, nota il ministro delle regioni Karla Slechtova, «ci confondono con la Cecenia di Khadyrov». Equivoci non lusinghieri. Ma da anni la battaglia per dare alla patria «un nome secco, breve, chiaro e facile da ricordare», nelle parole del presidente Milos Zeman, va avanti su internet: da “Civic iniziative Czechia” a “Go Czechia”, rivendicano la scelta oggi compiuta. Perché «Cesko (Cèchia appunto, ndr) è parola di nobili origini latine. Basta, diceva il tam tam in rete, chiamarsi «solo Ceska republika, è come se a Parigi, il 14 luglio e allo stadio, si dicesse République Française anziché France. Ma molti non erano o non sono d’accordo. A cominciare dal compianto padre della democrazia ritrovata, Vaclav Havel. “Cesko” lo infastidiva, «sottolinea troppo la scissione dalla Slovacchia, la fine della Ceskoslovensko, mi disturba come lumache che mi camminino addosso».
Altri preferivano “Cechy”, ma la parola indica solo la Boemia, non Moravia e Slesia. «Boemia andava meglio», dissente l’aristocratico ex capo della diplomazia Karel Schwarzenberg. Adesso tocca all’Onu registrare il nuovo nome in atti pubblici, annunci di conferenze, targhe al Palazzo di Vetro. Troppo tardi per stampare Cesko sulle divise degli olimpionici: le magliette con “Czech Republic” sono già pronte. Un’eccezione, non casuale: sulle spalle dei giocatori del mitico team di hockey su ghiaccio – eredi della squadra che in campo umiliò l’Urss, dopo la sanguinosa invasione sovietica del 1968 – già leggi solo “Czech”.
«La gente forse ci si dovrà abituare, meglio faremmo a discutere di corruzione o estremismo di destra», critica infine lo scultore David Cerny. Ma per noi che amiamo viaggiarvi Praga capitale d’uno Stato dal nuovo nome non sarà certo meno splendida. L’understatement cèco però resta: la patria ribattezzata non è sulle prime pagine.
(ha collaborato Petr Pisa)