Il Sole 24 Ore, 17 aprile 2016
Discutiamo un po’ del peccato
Il Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da San Pietro sino ai nostri giorni, opera di Gaetano Moroni aiutante di camera di Gregorio XVI e Pio IX, uscì in 103 volumi e ce ne vollero 6 per gli indici. Eppure, nonostante l’immensa erudizione lì raccolta, al 52° tomo pubblicato nel 1851 e con dedica al regnante pontefice, a pagina 30 la voce «peccato» non offre le diverse definizioni. Il lemma rimanda ad altre voci: «Penitenza, Indulgenza, Inferno, Limbo, Purgatorio, Paradiso, Battesimo, Pelagiani, Comandamenti di Dio e della Chiesa». Moroni definisce soltanto il «Peccatore», ricordando che «per umiltà» si davano questo titolo abati, vescovi e altri «personaggi ragguardevoli ed esemplari». Oggi, dopo qualche decennio di psicoanalisi, si sente parlare poco dei peccati, meno che mai di quelli mortali o veniali (dobbiamo molto per tale distinzione alla Scolastica), e l’evoluzione tecnologica li sta forse moltiplicando senza che qualcuno riesca a censirli. In passato accadeva il contrario, tanto che quando il gesuita Musnier (in accordo con il cardinale Sfondrati) formulò nel 1686 la definizione per gli «infedeli» di «peccato filosofico» (eccola: «Chi ignora Dio o non pensa attualmente a lui e agisce contro la retta ragione, commette un peccato filosofico, ma non un’offesa di Dio, ossia un peccato teologico»), nel volgere di quattro anni tale congettura fu devitalizzata. Bossuet, precettore del Delfino e vescovo di Meaux, aprì una polemica; non si fece attendere la condanna di papa Alessandro VIII e si gridò all’errore. Il riferimento, invece, per i nostri giorni, dopo che il Concilio Vaticano II ha posto in evidenza i peccati sociali (il papa Francesco li ha confermati), si trova nel Catechismo della Chiesa Cattolica, approvato definitivamente da Giovanni Paolo II nel 1997: «Il peccato è una mancanza contro la ragione, la verità, la retta coscienza; è una trasgressione in ordine all’amore vero, verso Dio e verso il prossimo, a causa di un perverso attaccamento a certi beni. Esso ferisce la natura dell’uomo e attenta alla solidarietà umana» (parte III, sezione prima, capitolo 1°, articolo 8). Per ricordare invece i quattro peccati che «gridano vendetta al cospetto di Dio», occorre aprire il Catechismo di San Pio X. Si è agli inizi del Novecento: omicidio volontario, peccato impuro contro natura, oppressione dei poveri, defraudare la giusta mercede a chi lavora.
Tutto questo per dire che ritorna alla luce una discussione che si tenne a Parigi il 5 marzo 1944: un gruppo di intellettuali francesi si raccolse intorno a Georges Bataille (da poco era uscita da Gallimard la sua opera L’Expérience intérieure) per discutere proprio del concetto di peccato. La pubblicazione degli interventi suscitò un notevole interesse e oggi che Medusa ne edita la traduzione di Alfredo Rovatti, con una introduzione di Roberto Peverelli, ci si accorge quanto sia stato importante quell’incontro che fu organizzato da Marcel Moré. I nomi che parteciparono fanno sobbalzare. Oltre Bataille, c’erano Sartre e Klossowski, il gesuita Danielou e Jean Hyppolite, Gabriel Marcel e altri ancora. Il concetto preso in esame non è propriamente il peccato dei teologi, o quello che essi hanno cercato di definire, ma qualcosa i cui confini sono verificati con sensibilità esistenzialista. Il dibattito è fascinoso. Per Klossowski, che cita subito Bataille e Heidegger (poi ci sarà anche Kierkegaard), essere colpevole «vuol dire guadagnare in interesse agli occhi di Dio»; Danielou incalza con parole che fanno ancora riflettere: «Per me il benessere spirituale è il peccato». Battute e repliche ruotano intorno a quanto Bataille ha sostenuto nella sua opera. Un intervento, che figura come anonimo, ne riassume la posizione: «Egli ha identificato il mondo del peccato con ciò che definisce l’assenza di noia, e l’ha contrapposta al mondo cristiano che ha descritto come mondo della noia». Sartre si rivolge con queste parole proprio a Bataille: «Nel suo discorso, il peccato ha un valore dialettico, vale a dire che si autodissolve; la sua funzione è di portarla fino al punto in cui non le risulterà più riconoscibile come peccato».
In margine possiamo soltanto aggiungere che nella Bibbia, ebraica o cristiana, non mancano numerose indicazioni. Ne scegliamo, tra le molte, una che si legge nella Lettera di Galati di Paolo e può essere utile per i cristiani: «Le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; circa queste cose vi preavviso, come già ho detto, che chi le compie non erediterà il regno di Dio» (5, 19-21).