Il Sole 24 Ore, 17 aprile 2016
Inutile dividerci fra ottimisti e pessimisti, l’economia italiana ha due facce, cerchiamo di capire cosa fare ora
Forse nessuno si attendeva indicazioni di rilievo dal G-20 appena concluso a Washington. È raro che questo genere di incontri generi messaggi e segnali forti. E tuttavia colpisce, nel comunicato finale, la mancanza di qualsiasi valore aggiunto informativo significativo. Più che enunciare impegni credibili, mi pare che il vertice delle economie più importanti del pianeta abbia rafforzato il senso di smarrimento che pervade cittadini e operatori economici.
Difficile dare molta fiducia alle promesse di trasparenza fiscale se a formularle è un premier (David Cameron) coinvolto nello scandalo dei “Panama papers”; ancor più difficile credere agli enunciati contro le svalutazioni competitive, visto che è precisamente in questo genere di guerre che le economie più potenti del mondo sono impegnate da anni.
Più facile, invece, è credere alle preoccupazioni dei governanti, se non altro perché sono in sintonia con l’umore dei governati. Lo sappiamo tutti che terrorismo, guerre, flussi migratori fuori controllo, crisi dei debiti pubblici e privati, possibile uscita del Regno Unito dall’Unione Europea incombono come nere nuvole all’orizzonte. Il problema è che chi è al timone dell’economia mondiale, dopo aver avvistato i segni della possibile tempesta in arrivo, non pare in grado di indicare una rotta sicura. E sentir dire a Draghi che l’inflazione potrà essere ancora negativa nel 2016 suona, inevitabilmente, come la presa d’atto di un’impotenza, o di una difficoltà, della politica monetaria. Possiamo anche denominare tutto questo un risultato parziale, possiamo anche pensare che la Bce ha fatto quel che doveva, che è stata la politica europea ad essere latitante, e che senza il Quantitative Easing sarebbe stato un disastro, ma resta il fatto che l’obiettivo di sostenere i prezzi per alleggerire i debiti è stato, finora, clamorosamente mancato.
In questo quadro, già poco confortante per l’economia mondiale, non suonano particolarmente rassicuranti né i dati più recenti sulla crescita dei Paesi avanzati (i 34 Paesi Ocse), né quelli sulla zona euro, né quelli sull’Italia.
Il tasso medio di crescita dei Paesi Ocse previsto per il 2016-2017 è di poco superiore al 2%, contro il 3.5% degli anni pre-crisi (2000-2007). Quello dei paesi dell’Eurozona continua ad essere inferiore al 2%, quello dell’Italia è appena al di sopra dell’1%.
Per l’Italia, tuttavia, il quadro è più complesso di come può apparire dalle crude cifre degli organismi internazionali.
I segnali di ripresa sono tuttora deboli e insoddisfacenti, ma sono piuttosto chiari e coerenti nel tempo. Occupazione, potere di acquisto delle famiglie, ore lavorate sono in lenta crescita fin dal 2013.
Un dato per tutti riassume la boccata di ossigeno affluita alle famiglie: il numero di unità familiari in difficoltà economica (che devono fare debiti o attingere alle riserve per arrivare alla fine del mese), dopo aver toccato il massimo storico del 32% fra il 2012 e il 2013, negli ultimi due anni è in costante diminuzione, e ora si attesta intorno al 20%.
Sempre tante, troppe famiglie non riescono a sbarcare il lunario (negli anni ’80 e ’90 erano la metà, circa il 10%), ma comunque sono molte meno di 3 o 4 anni fa.
Questi segnali positivi non vanno trascurati ma, purtroppo, non cancellano i segnali di pericolo che organismi internazionali, Banca d’Italia, uffici studi ripetono senza sosta: gli investimenti ristagnano, il debito pubblico non scende, la produttività è ferma da quasi vent’anni, il gap fra il tasso di crescita del Pil italiano e quello dell’Eurozona è ancora più grande di quello che separa l’Eurozona dalle economie avanzate al di fuori dell’area euro.
Nel sistema di cerchi concentrici che includono, in successione, l’economia mondiale, le economie avanzate, l’Eurozona, il nostro paese occupa la nicchia peggiore: non credo più di tanto alle previsioni di crescita degli organismi internazionali, ma colpisce che, per il 2017, il Fondo monetario collochi l’Italia al terzultimo posto, e l’Ocse addirittura al penultimo, su ben 34 economie avanzate.
Così, a ben guardare, l’Italia si presenta come una sorta di moneta a due facce. Osservata con l’occhio rivolto alla stagione di crisi che speriamo di lasciarci alle spalle, essa ci appare come un malato che sta riprendendo le forze. Ma guardata con l’occhio rivolto a quel che succede al di fuori del cortile di casa, nel vasto spazio dell’economia mondiale, o anche solo delle economie avanzate, essa ci appare piuttosto come uno dei pochi malati che stentano ancora ad alzarsi dal letto e camminare da soli.
Se anziché guardare alle incerte, spesso troppo ottimistiche, previsioni di crescita degli organismi internazionali, guardiamo al dato di crescita effettiva più recente, quello del 2015, il ritorno alla realtà fa riflettere: il tasso di crescita dell’Italia è circa un terzo di quello degli altri paesi della zona Euro, che a loro volta sono cresciuti un po’ meno degli altri paesi Ocse. Forse, prima di qualsiasi presa di posizione sulle terapie, è giunto il momento di prendere atto del carattere bifronte di questa stagione.
Anziché dividerci fra ottimisti e pessimisti, meglio sarebbe deciderci, una buona volta, a guardare entrambe le facce della moneta: perché misurarci con il nostro recente passato di crisi ci può certo rassicurare, ma guardare che cosa succede al di fuori dei nostri confini è indispensabile per non cadere in pericolose illusioni.