La Lettura, 17 aprile 2016
Rembrandt, un autoritratto in frammenti di 346 opere
Hal 9000, gelido supercomputer protagonista di 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, lo avrebbe forse scelto per abbellire i rarefatti interni della sua astronave Discovery 1: «Un’ottima esecuzione», avrebbe sentenziato freddo (perché in fondo pur sempre di una macchina si trattava) utilizzando le stesse parole con cui nel film dimostrava apprezzamento per il disegno del capitano David. Una scelta, quella del supercomputer, idealmente scaturita da una sorta di affinità elettiva: perché se Hal altro non è che l’acronimo di Heuristic Algorithmic, in omaggio «ai due principali metodi con cui il pensiero umano si manifesta», questo nuovo pseudo-Rembrandt – presentato nei giorni scorsi ad Amsterdam – è stato realizzato proprio utilizzando, in contemporanea, due linguaggi artistici tra loro lontanissimi, almeno all’apparenza: la classica pittura (per l’ispirazione) e un sofisticato algoritmo che ha invece assemblato 168.263 frammenti delle 346 opere attribuite all’artista olandese, concentrandosi in particolare su volti e dintorni.
Dunque, visi, nasi, baffi e barbe, cappelli (con il pennacchio oppure no), pendagli e gorgiere che, come d’incanto, la sovrapposizione di 13 stampe tridimensionali da oltre 148 milioni di pixel ha trasformato in un simil-capolavoro. Un Ritratto di uomo, esposto la scorsa settimana per qualche giorno alla Galleria Looiersgracht 60 di Amsterdam, in cui di fatto si ritrova «concentrata» tutta l’opera di Harmenszoon van Rijn Rembrandt (1606-1669), uno dei grandi maestri della pittura fiamminga: dalla Saskia ridente alla Ronda di notte, dal Ritratto del costruttore navale Jan Rijksen e della moglie al Festino di Balthasar.
Tutto e niente, comunque. Perché in questo mishmash alla fine è difficile identificare un’opera precisa a cui il nuovo ritratto faccia particolare riferimento: qualcuno, ad esempio, ha parlato del Ritratto di uomo con la mano sul petto del Met di New York, certo molto somigliante anche se gli occhi dell’originale hanno rispetto all’opera artificiale palpebre spesse e sono leggermente infossati; il naso è più carnoso; la bocca è chiusa mentre nella «replica» è semiaperta; la gorgiera è assai più ricca di pieghe, l’orecchio è più coperto. Ma, certo, tra i 168.263 frammenti qualcosa in più del dipinto del Metropolitan sembra essere rimasto, visto che, neanche nell’originale realizzato nel 1632 per la famiglia Van Beresteyn, s’è potuto identificare un soggetto preciso. Come sembra essere rimasto qualcosa (più o meno alterato) dei ritratti di Marten Looten, di Jan Harmensz Krul, di Jan Pietersz Bruyningh e della moglie Hillegont Pietersdr Moutmaker, di Jacob de Gheyn, dell’ Uomo con il cappello nero del Mfa di Boston, della celeberrima Lezione di anatomia del dottor Nicolaes Tulp.
Razza caucasica, uomo, quarant’anni, capelli scuri: ecco l’identikit del protagonista del progetto durato 18 mesi denominato The Next Rembrandt che ha messo insieme Microsoft, il gruppo finanziario olandese Ing, l’Università di Delft e due musei, il Mauritshuis dell’Aja e la Rembrandthuis (la casa dell’artista) di Amsterdam. «Tutto è cominciato – spiega a “la Lettura” Bas Korsten, responsabile dell’operazione per Ing – da un volto di Cristo, non perché sono stato toccato dalla grazia, piuttosto perché ho visto su una rivista scientifica una ricostruzione in 3D di quel volto partendo da tre teschi trovati vicino a Gerusalemme e ho pensato: perché non provare con Rembrandt?».
All’inizio, la maggior parte dei tecnici era assai scettici sul significato e sul risultato di un’operazione che – aggiunge Korsten – «voleva replicare il Dna artistico di Rembrandt attraverso i suoi capolavori». Qualcuno si è ricreduto, come lo storico dell’arte Gary Schwartz: «Un’operazione perfettamente riuscita anche per i massimi esperti di Rembrandt». Qualcuno è invece rimasto assolutamente scettico come il critico Peter Schjeldahl che sul «New Yorker» lo ha definito «il pasticcio di un team scientificamente molto modesto che oltretutto ha avuto la pretesa di dichiarare che solo Rembrandt poteva dipingere un quadro simile; certo è così, ma quello che manca a questa copia è il sentimento, è come se fosse un attore che recita male una parte».
Ma perché misurarsi proprio con Rembrandt, maestro delle luci e delle ombre, genio capace di leggere nella profondità dell’anima dei ricchi borghesi che da lui si facevano ritrarre in qualche modo per certificare il proprio status sociale (i ritratti rappresentano il 67% dei suoi lavori)? «Perché era olandese e perché potevamo avere tantissimo materiale a disposizione per creare un software adeguato». La creazione del nuovo Ritratto di uomo alla maniera di Rembrandt è stata certo complessa: il team ha prima esaminato, utilizzando una scansione a 3D e file digitali, tutti i dipinti del maestro olandese per sviluppare gli algoritmi in grado di estrarre le caratteristiche necessarie a fare un altro Rembrandt, come la forma e le proporzioni del viso o la posizione del soggetto (il giovane del nuovo Rembrandt guarda a destra).
Dall’assemblaggio di questi elementi è così nata la prima versione del ritratto, quella che un tempo si chiamava il bozzetto, un bozzetto inizialmente «solo» bidimensionale che, riprodotto e stampato in 13 versioni 3D, successivamente sovrapposte l’una all’altra, ha trovato una trama pittorica, proprio come si trattasse di un reale dipinto a olio (di conseguenza, il ritratto si percepisce al tatto come se fosse stato dipinto da un uomo e non da una macchina). Poco male, dunque, se quest’uomo che prova a guardare negli occhi lo spettatore non riesce a raggiungere l’intensità dello sguardo dell’ Autoritratto in costume orientale del Petit Palais, del Vecchio soldato dell’Ermitage, del Nicolaes Ruts della Frick Collection, dell’ Agatha Bas della Royal Collection. Perché, in fondo, si tratta di un transgender con una buona dose, il 40% circa dichiarano i ricercatori, di elementi femminili.
Non è certo la prima volta che l’arte si misura con le versioni pixelate (più o meno d’autore) di un capolavoro. Basterebbe pensare a Le nozze di Cana di Paolo Veronese (oggi al Louvre) tornate nel 2007 al Cenacolo Palladiano dell’Isola di San Giorgio Maggiore grazie alla creazione di un «secondo originale» firmato da Adam Lowe per la Fondazione Cini: un facsimile in scala 1:1 in cui di fatto si ritrovano tutti gli elementi dell’originale, le linee, le sfumature di colore, persino le imperfezioni della tela di supporto e i segni dell’usura del tempo.
Nonostante i dubbi dei critici, Bas Korsten continua a rimanere ottimista, dichiarandosi felice della possibilità che al quadro venga presto dedicata una mostra («Per ora non abbiamo deciso, ma certo prima o poi si farà al Modern Art Museum di Amsterdam»). Dalla sua parte, oltre alla tempesta mediatica suscitata dal Next Rembrandt, c’è in qualche modo la storia: «Nessuno ormai si stupisce quando si parla di musica elettronica, perché dovremmo farlo con l’arte computerizzata? è solo questione di tempo». E per ribadire la sua passione per Rembrandt ricorda il flash-mob da lui organizzato nel 2013 in occasione della riapertura del Rijksmuseum con tanto di attori che replicavano la Ronda di notte (un’operazione vicina al Cenacolo di Leonardo riprodotto nel 2008 in versione virtuale da Peter Greenaway). E minaccia: «Presto, con gli algoritmi, potremmo creare un nuovo David Bowie o un altro Johan Cruijff animati».