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 2016  aprile 17 Domenica calendario

Un giorno avremo un computer come capo

Non temete: vivremo in un mondo sempre più dominato dalle macchine, ma i robot non prenderanno il sopravvento sull’uomo. Dovremo, però, abituarci all’idea di lavorare avendo come capo un computer. O, meglio, le nostre azioni saranno guidate da algoritmi. Parola di Pedro Domingos, computer scientist della Washington University di Seattle in dialogo continuo con giganti digitali come Amazon, Microsoft, Google e cofondatore della Machine learning society. Domingos, un portoghese che ha studiato e sviluppato la sua attività di ricerca negli Stati Uniti, guarda con grande ottimismo alla diffusione della tecnologia: «Ci sono problemi da risolvere, ma nel complesso ci aiuta a vivere vite più lunghe, più felici e più produttive». Lo scienziato è convinto che prima o poi il genere umano riuscirà a fare una sorta di salto di qualità nel percorso della conoscenza, grazie allo sviluppo di algoritmi sempre più potenti e penetranti, fino ad arrivare a quello che definisce L’Algoritmo Definitivo in un libro con questo titolo in libreria dal 21 aprile in Italia per Bollati Boringhieri ( Master Algorithm nella versione inglese).
Pensa che il genere umano sia pronto a immergersi in un mondo quasi completamente governato dalle macchine?
«Basta non viverla come una minaccia incombente sul futuro, ma come una realtà che è già parte integrante delle nostre vite: le macchine che imparano da sole sono ormai ovunque. E non sono minacciose: sono una presenza che ci aiuta o comunque influenza quasi tutto ciò che facciamo. Quando andiamo al supermercato scegliamo prodotti la cui disposizione sugli scaffali è stata decisa da un algoritmo che tiene conto delle abitudini di consumo dei clienti. Alla cassa paghiamo con una carta di credito che la banca ha probabilmente deciso di darci, considerandoci debitori affidabili, grazie all’analisi di una di queste macchine capaci di imparare dall’esperienza. Altre macchine simili selezionano le domande degli studenti che cercano di entrare nelle migliori università, esaminano le richieste d’impiego, indicano rose dei candidati più promettenti per un certo lavoro. E, oltre alle assunzioni, gli algoritmi spesso governano anche le promozioni e gli aumenti di stipendio. Può non piacere, ma forse è meglio che avere un capo lunatico o prepotente. L’elenco può essere infinito: dalla Nsa, che usa algoritmi per individuare i sospetti terroristi da tenere sotto controllo, ad Amazon, che si serve di una tecnologia simile per suggerire a ogni cliente i libri più adatti ai suoi interessi e i suoi gusti. Netflix propone serie televisive sulla base delle preferenze dei suoi abbonati, Pandora sceglie nello stesso modo la musica da proporre a ogni utente. E ancora: il machine learning è alla base dell’auto che si guida da sola, dell’eliminazione dello spam dai nostri computer, di una serie infinita di servizi, da quelli di trasporto all’e-commerce, fino al dating, cioè la ricerca dell’anima gemella. Gli smartphone che abbiamo in tasca sono già oggi zeppi di algoritmi che ci studiano e imparano dai nostri comportamenti».
Curioso che di tutto questo non si parli affatto nella campagna elettorale Usa. Forse perché i candidati temono di spaventare elettori già tutt’altro che soddisfatti per come vanno le cose nel Paese. C’è chi farebbe volentieri un passo indietro: teme le macchine, la loro concorrenza sul mercato del lavoro.
«Sì, è una paura diffusa, ma secondo me sono timori in larga misura infondati. Alla fine la disoccupazione Usa è ai minimi. Si diceva che il bancomat avrebbe condannato a morte il bancario. Invece ce ne sono più di prima, solo che fanno altro. Del resto, tornare indietro è problematico: chi lo fa si condanna a vivere nel XXI secolo con le regole e le conoscenze del XX. Bisogna saper affrontare la realtà. Se ti trovi davanti un cavallo non è che ti metti a correre pensando di poter essere più veloce di lui, cerchi di cavalcarlo».
Bella metafora, ma un anziano difficilmente monterà a cavallo: la tecnologia lo intimorisce. Verrebbe da dire che questo non è un mondo per vecchi. Ma poi scopri che molte delle tecnologie più innovative delle «learning machine» verranno utilizzate in primo luogo proprio dagli anziani. Avranno bisogno anche loro di un’istruzione digitale?
«Quello che dice sulla tecnologia per gli anziani è giusto: l’auto che si guida da sola sarà un’opzione per molti di noi, ma una necessità per chi, benché invecchiato, è ancora attivo. Ha bisogno di spostarsi ma il medico gli ha negato la patente per problemi di vista, udito o altro: ci pensa l’auto-robot. Un’intera branca della robotica, poi, è dedicata all’assistenza degli anziani e dei malati non più autonomi. In Giappone questi infermieri-robot sono già diffusi. Ci sarà anche altro come l’esoscheletro: una struttura cibernetica capace di sostenere e aiutare i movimenti di chi è indebolito. Non è vero che quello degli algoritmi non è un mondo per vecchi. Né credo si possa imporre un corso d’informatica a un ottantenne: è la tecnologia che diventa più intuitiva e facile da usare, ad esempio coi comandi dati a voce».
Lei, però, va alla ricerca di un «algoritmo definitivo». Sembra quasi un’esplorazione ai confini tra scienza e religione. Dan Brown, l’autore de «Il codice Da Vinci», durante una conferenza in California alla quale ha partecipato anche lei, ha detto che la tabella di marcia dello sviluppo umano è sempre più compressa dalla rapida evoluzione tecnologica in campi come la robotica, sostenendo, infine, che la tecnologia avrà un impatto sulla spiritualità umana superiore a quello della religione. E si è chiesto se l’uomo è abbastanza maturo per fronteggiare tutto questo.
«L’algoritmo è una sequenza di istruzioni che dice al computer cosa fare accendendo o spegnendo miliardi di interruttori: logica più che matematica. Come dicevo prima, oggi esiste una miriade di algoritmi che ci studiano, nei campi più disparati. Vengono costruiti seguendo tecniche diverse. Ci sono cinque scuole di pensiero nel mondo del machine learning. Qui tutto è basato sulla predizione. Predire cosa vogliamo, il risultato delle nostre azioni, come centreremo i nostri obiettivi, come cambierà il mondo. Cinque tribù, se vuole: gli analogisti, gli evoluzionisti, i simbolisti e via andando. Io penso che prima o poi arriveremo a una sintesi e riusciremo a costruire l’algoritmo definitivo: quello dal quale saremo in grado di far derivare tutta la conoscenza della quale abbiamo bisogno semplicemente inserendo dati. Forse è una chimera, ma io credo di no. Cambierà le nostre vite che, del resto, stanno già cambiando per effetto della tecnologia. La fede non c’entra».
L’algoritmo di Dio, direbbe qualcuno. Più pragmaticamente, gente come Elon Musk, l’imprenditore visionario di Tesla e SpaceX, e lo scienziato Stephen Hawking temono che per questa via si possa perdere il controllo di un processo di automazione sempre più estremo: l’intelligenza artificiale che prende il sopravvento sull’uomo.
«Ho grande rispetto per Hawking e Musk, ma credo che alla base dei loro timori ci sia una percezione alterata dei meccanismi dell’intelligenza artificiale. Essere intelligente ed essere umano sono due cose diverse. Gli algoritmi, per quanto perfetti, non possiedono una volontà autonoma: cercano soluzioni ai problemi che gli poniamo. I computer sono un’estensione di noi. Lei non teme che il suo braccio le dia uno schiaffo. Allo stesso modo non deve temere che il computer si rivolti contro di lei. I robot di Hollywood sono esseri umani travestiti. Quelli reali non hanno nulla di umano. Se le macchine finiranno per danneggiare l’uomo sarà perché prendono i suoi ordini troppo alla lettera, perché mancano di common sense, di buon senso»
Lei ha preso varie lauree – ingegneria elettrica, «computer science» – e il suo impegno, a dir poco, è multidisciplinare. Cosa si sente? Un ingegnere, un filosofo, un matematico, un meccanico del tessuto sociale?
«Bella domanda! Un po’ di tutto questo direi. La definizione che mi piace di più è quella di meccanico della società perché poi, alla fine, la computer science sconfina nella sociologia. Del resto i cambiamenti indotti da computer e telefonini nei comportamenti della gente sono già sotto gli occhi tutti: dal diverso modo di apprendere alla scelta del partner di una vita. Lo sa che oggi in America un terzo dei matrimoni viene da una relazione nata davanti a un computer?».
Cambiano i comportamenti e cambia il mercato del lavoro. L’automazione divora un numero crescente di mestieri. Nel frattempo ne nascono anche di nuovi, certo, ma in misura minore e, spesso, poco pagati. Vita grama per gli umanisti, mentre ingegneri e matematici sono più richiesti. Poi, però, scopri che Uber assume più laureati in giurisprudenza e «humanities» che tecnici, e che a Google arrivano i filosofi.
«Esatto: nell’immediato i più richiesti sono i computer scientist : ce ne sono pochi rispetto alla domanda delle imprese che hanno bisogno di loro per sfruttare le potenzialità di Big Data e sviluppare i sistemi di machine learning. A me vengono a strappare i ragazzi ancora in classe. Ma è vero che le imprese tecnologiche hanno bisogno di un numero crescente di umanisti. Proprio perché gli algoritmi sono un fatto più di logica che di matematica e cambiano la società. E poi, a mano a mano che imparano, le macchine sostituiranno soprattutto il lavoro tecnico degli ingegneri, più che quello di filosofi e sociologi».
I giganti della tecnologia hanno cercato anche lei. Offerte da capogiro, dicono. È rimasto all’università. Perché?
«Se vuoi cambiare la società, la cosa più importante è la ricerca. E la ricerca si fa meglio nell’università. Alcuni dicono che l’industria è più rapida, ha più impatto, più risorse, più dati, più capacità di calcolo. Ma io qui ho tutto il computing power che voglio e sono libero di collaborare con chiunque: qui fuori, a Seattle, ci sono gruppi come Microsoft e Amazon».