La Lettura, 17 aprile 2016
In giro per la giungla di Calais con Emmanuel Carrère
Vi sembrerà strano, ma l’Hôtel Meurice di Calais è nato prima del celebre albergo parigino, non il contrario. Anzi, questa ex stazione di posta è l’antesignana degli hotel di lusso europei – un lusso oggi piuttosto sfiorito, ma che per un bel po’, a prezzi ragionevoli, ha sedotto i turisti inglesi. Il problema è che negli ultimi anni i turisti inglesi – come qualunque commerciante di Calais vi confermerà – se la sono data a gambe per paura dei migranti e più in generale del caos che regna in città. Al signor Cossard, il proprietario, piacerebbe piantare baracca e burattini e vendere tutto – ma purtroppo a Calais non si vende niente. In alternativa gli piacerebbe anche annoverare tra i propri clienti i Crs (gli uomini dei reparti antisommossa), che controllano con circa milleottocento unità la zona dell’Eurotunnel e del porto – una vera manna per i gestori di Ibis, Novotel e Formule 1 (1) —, ma forse chi si occupa di queste cose al ministero dell’Interno ha ritenuto che la decadenza borghese del Meurice, con le sue tappezzerie a fiorami sbiadite, le meridiane traballanti e i fronzoli polverosi, mal si accordasse con la rude missione delle forze dell’ordine. In ogni caso, da qualche mese è comparsa una nuova clientela, composta in parte da giornalisti, in parte da cineasti e artisti venuti da tutta Europa per testimoniare la tragedia dei migranti. In certi momenti sembra quasi di stare nel leggendario Holiday Inn di Sarajevo, dove alloggiavano i corrispondenti di guerra durante l’assedio. Dopo colazione tutti si infilano un caldo piumino sul gilet multitasche, imbracciano la videocamera e salgono su un’auto noleggiata all’agenzia Avis di place d’Armes per andare nella Giungla come si va al fronte.
Io invece nella Giungla non ci vado – non ancora. Resto in città. Stamattina, prima di uscire, alla reception ho trovato una lettera che comincia così:
«No, lei no!
«Oggi pomeriggio Laurent Cantet, la settimana scorsa Michael Haneke, è passato di qui anche Charlie Winston, ma lei proprio no, Carrère, no! Ne abbiamo le scatole piene, mi scusi l’espressione, dei vip che vengono a riempirsi le tasche a nostre spese e che a noi, chiusi tra queste mura, ci prendono per dei topi da laboratorio! Che è venuto a fare qui? Si è ritagliato una quindicina di giorni tra Il Regno (2) e la sua prossima fatica letteraria per dormire al Meurice, scrivere qualche pagina su un giornale e dire la sua sulla nostra città? Avrà notato che ho detto “la nostra città” come se ormai mi sentissi una di qui. Lo sa, Carrère, che in tre anni passati in questo abisso sono stata contattata almeno una volta alla settimana da persone che arrivavano da fuori e che come lei volevano scrivere, filmare, raccontare al microfono quello che hanno visto, credendo forse di fare meglio degli altri, volendo sicuramente appagare l’imperioso bisogno di svolgere il proprio compitino? Calais è diventata uno zoo e io sono una di quelli che staccano i biglietti. L’iter lo conosco bene e allora mi chiedo: lei, Carrère, da chi si lascerà irretire? Andrà a respirare l’aria del Channel (dove l’ho già vista)? Della Betterave (l’ho vista anche lì)? Del Minck (dove, ci scommetterei, l’hanno portata a stringere la mano a tutti)? Non lo so, non ho un’idea precisa, ma di una cosa sono sicura: la sua impresa sarà comunque un fiasco».
Ce ne sono otto di pagine come questa, più tristi che crudeli, molto ben scritte e firmate con un nome che ha tutta l’aria di uno pseudonimo: Marguerite Bonnefille. Dopo aver terminato la lettura mi avvio, ovviamente pensieroso, verso il caffè Minck. A piedi, cosa non molto comune in un dipartimento così povero che i suoi introiti fiscali provengono principalmente dall’immatricolazione delle auto. Risalgo rue Royale, l’arteria principale di Calais-Nord – Calais-Nord, che in un certo senso è un’isola e fino all’Ottocento era Calais e basta. Rue Royale la chiamano «via della sete» per i numerosi bar che la fiancheggiano. Il sabato sera qui si ammazzano di botte. La mattina i bar sono chiusi e anche buona parte dei negozi, ma questi ultimi senza nessuna prospettiva di riaprire, innanzitutto perché a Calais c’è sempre meno gente che compra e poi perché per fare la spesa, per uscire la sera o per andare al cinema, quando si riescono a racimolare i soldi del biglietto, c’è la Cité Europe, il grande centro commerciale adiacente all’entrata dell’Eurotunnel nel vicino comune di Coquelles. La Cité Europe, l’Eurotunnel, tutto sembra concorrere a che la Calais intra moenia non serva più a niente. Resta il porto, sul quale si sbuca dopo aver attraversato place d’Armes. Ricostruita dopo la guerra, come del resto l’intera città, da un architetto che, guadagnatosi una certa fama a Tolone e a Casablanca, le ha conferito un tocco mediterraneo che mal si concilia con il clima, quest’immensa spianata ventosa è abbellita da due statue che raffigurano il generale de Gaulle e sua moglie Yvonne – la quale, ho scoperto, era di Calais. Su queste statue, qualche giorno dopo la mia partenza, comparirà la scritta «Nik la France» («Fanculo la Francia»), imputata ai misteriosi No Borders, un gruppo di attivisti senza nazionalità, senza struttura e senza gerarchia, molto presenti nella Giungla, a loro modo idealisti e generosi, ma che qui sono considerati delle specie di troll malefici sempre pronti a cogliere l’occasione per creare casini. Comunque, il porto di Calais è il primo in Francia per numero di passeggeri e il secondo in Europa, dopo Dover. Insieme alle fabbriche di merletti è stato a lungo la principale fonte di occupazione della città. E resiste ancora: un ambizioso progetto battezzato Calais 2015 (che però, all’inizio del 2016, è ancora in alto mare) prevede che raddoppino sia la superficie che le attività. Ma la concorrenza dell’Eurotunnel e gli incidenti quotidiani con i migranti gli hanno inflitto una significativa battuta d’arresto. Argomenti di conversazione di questo tipo ritornano di continuo tra i clienti abituali del Minck, dove, come ha intuito Marguerite Bonnefille, mi hanno portato appena ho messo piede in città. Mi facevano da guida un giornalista della «Voix du Nord», Bruno Mallet, e sua moglie, Marie-France Humbert, che lavora a «Nord Littoral», un po’ come dire Montecchi e Capuleti, tanto questi due quotidiani, pur appartenendo allo stesso gruppo, si danno addosso. Poi, però, fanno tutti pace davanti a un bicchiere di muscadet, al Minck, uno dei posti più conviviali di Calais e, aggiungerei, del mondo intero. Nel complesso i clienti sono di una certa età: marinai, pescatori, impiegati della Camera di Commercio e sindacalisti portuali in pensione, e spero di non essere frainteso se dico che abbonda di faccioni rubizzi che farebbero la gioia di un direttore del casting incaricato di reclutare attori per un film nostalgico sull’aristocrazia proletaria di una volta. E tuttavia quello che mi colpisce di più non è la straordinaria concentrazione di brave persone canute e rubiconde, di gente semplice, né il fatto che molte di queste brave persone, anche se non saprei dire con esattezza quante, votino per il Front National, ma l’usanza, introdotta una quindicina di anni fa da Laurent e Mimi, i proprietari, che prevede che chiunque entri al Minck, seguito da una gran folata di vento marino, prima di ordinare faccia il giro dei tavoli per stringere la mano a tutti gli avventori presenti, che li conosca o meno. Pur essendo un tipo piuttosto riservato, anch’io ho preso l’abitudine di stringere ogni volta venti o trenta mani – e me ne compiacevo finché la mia corrispondente non mi ha fatto notare che mi stavo comportando come quei turisti che a Parigi vanno sul bateau-mouche e passano le serate al Moulin Rouge.
E già! La mattina prendo il caffè al Minck e la sera mi bevo qualche birra alla Betterave, che è il bar trendy di Calais-Nord: una propaggine del Channel di cui parlerò tra poco. Al bancone di questi due locali ho potuto constatare che lo stereotipo secondo il quale la gente del Nord, a dispetto del clima uggioso, è calorosa e ospitale risponde al vero. Un po’ come per i russi: si dice che siano ubriaconi, sentimentali, eccessivi – e così è. Eppure, da quando ho ricevuto la lettera, di ogni faccia sospetto sia quella della mia misteriosa corrispondente, appostata, in agguato, che mi ascolta con ironia amara sciorinare la solita tiritera su quello che ho intenzione di fare qui. «A proposito del compitino», mi scrive, «la prospettiva che ha scelto è un po’ diversa dal solito, glielo concedo. Parlare di Calais senza i migranti, parlare del resto – se ho ben capito – è un bel cambiamento. Vuole essere spiazzante. Bravo!». Lei è ingiusta, Marguerite Bonnefille. Io non ho mai detto che voglio parlare di Calais senza i migranti – e perché non di Varsavia, nel 1942, senza il ghetto? —, solo che voglio rivolgere lo sguardo alla città e ai suoi abitanti. Tutte le persone con cui parlo approvano con entusiasmo questo programma: «È vero», mi ripetono, «non ne possiamo più che si parli di noi solo per questo. E anche noi non ne possiamo più di parlare solo di questo». Dopodiché, inevitabilmente, ci si mette a parlare di questo. Alcuni hanno le idee molto chiare, ma altri dicono che la cosa peggiore è non poter fare a meno di schierarsi e di essere comunque costretti a definirsi a ogni piè sospinto «pro» o «contro» i migranti. È come un eterno affaire Dreyfus (3) : vi ricordate la vignetta del pranzo di famiglia? Prima immagine, il padrone di casa dice: «Per favore, non ne parliamo»; seconda immagine, la tavola è sottosopra, i convitati si ammazzano tra loro e la didascalia recita: «Ne hanno parlato».
Pro e contro i migranti sono espressioni bizzarre. Pro migranti nel vero senso della parola non ce ne sono, dato che nessuno è favorevole ad avere alle porte di una città di settantamila abitanti una popolazione di settemila disgraziati ridotti allo stremo, che dormono in tende di fortuna, nel fango, al freddo e che ispirano, a seconda del carattere di ciascuno, apprensione, pietà o sensi di colpa. Quelli che sono davvero contro i migranti, invece, i fanatici capaci di sbraitare: «Annegateli tutti!» o: «Rimandateli a casa loro!» – che in fondo sarebbe la stessa cosa —, quelli, sì, ci sono, ne ho incontrati alcuni, ma non sono certo la maggioranza. Molti dicono che la situazione era gestibile quando c’erano soltanto «i kosovari», arrivati negli anni Novanta, alla fine della guerra dei Balcani – e così ancora oggi vengono chiamati, soprattutto dai vecchi, gli stranieri senza permesso di soggiorno. Erano solo poche centinaia di persone, si poteva farsene una ragione. Ma ora che ci sono «i siberiani» è veramente troppo. Me li hanno nominati un paio di volte, «i siberiani». Ci ho messo un po’ a capire che si trattava dei siriani e con loro dei curdi, degli afghani, degli eritrei, dei sudanesi, di tutti quelli che arrivano, ormai a migliaia, dal Medio Oriente o dall’Africa orientale, Paesi devastati dalla guerra, come ci ripetono ogni giorno in televisione, sicché, certo, uno li capisce, poveracci, se scappano, ma vorremmo che si fermassero ovunque tranne che nel nostro giardino. Va bene accoglierli, ma perché da noi? Perché a Calais, che ha già tanti problemi? Nessuno è contento dell’ingombrante presenza dei migranti, e i migranti stessi sono disperati all’idea di dover restare qui, ma mentre chi è contro i migranti se la prende direttamente con loro – con una buona dose di razzismo, bisogna dirlo —, per i pro migranti il problema è quello dello Stato, dell’Europa e soprattutto dell’Inghilterra, dove vogliono andare tutti, e che non li vuole, e ci ha fatto il brutto scherzo di metterci la frontiera in casa per poi affidarci il compito di occuparcene e di sorvegliarla. Questa fregatura si chiama trattato di Le Touquet e lo conoscono perfino quelli che chiamano «siberiani» i siriani.
Firmato nel febbraio del 2003, il trattato di Le Touquet è un’intesa che mira a regolamentare la gestione dei flussi migratori tra Francia e Inghilterra e di fatto stabilisce che le frontiere francesi siano sorvegliate dagli inglesi e quelle inglesi dai francesi. Sulla carta sembra un accordo simmetrico. Il problema è che nessun migrante cerca di passare dalla Gran Bretagna alla Francia – uno dei Paesi europei considerati meno appetibili – mentre a migliaia tentano ogni anno con tutti i mezzi, e spesso mettendo a repentaglio la propria vita, di passare dalla Francia alla Gran Bretagna – dove le leggi sul lavoro sono più flessibili, i controlli sull’identità delle persone meno frequenti e le comunità straniere più unite, senza contare che molti migranti masticano l’inglese. In pratica, il risultato del trattato di Le Touquet ce l’abbiamo sotto gli occhi quando usciamo dall’autostrada 16 per imboccare la circonvallazione esterna che conduce al porto e al terminal dei traghetti. Sembra di essere in un film di guerra o in un videogioco post-apocalittico. Le camionette dei Crs stazionano a decine sulla corsia d’emergenza e sorvegliano dall’alto la più grande bidonville d’Europa. Appena fa buio, ragazzi con giacche a vento nere e berretti di lana, che sopravvivono a fatica nella bidonville, si lanciano all’assalto della circonvallazione, e tentano strategie diversive di ogni sorta – lanci di rami, di carrelli del supermercato... – per distrarre i Crs e rallentare la circolazione nella speranza di saltare a bordo di un camion. Ci sono molti incidenti, spesso mortali, e anche chi ce la fa, una volta giunto al porto, ha pochissime probabilità di superare la dogana perché i controlli sono sempre più sofisticati: cani, infrarossi, termorilevatori e rilevatori del battito cardiaco. È un incubo per tutti: per i migranti, per i Crs, per i camionisti e per gli automobilisti che temono ora di essere aggrediti da un migrante ora di investirne uno – ennesima variante, estremamente semplificata, dell’opposizione tra chi è pro e chi è contro. Si procede tra due recinzioni metalliche bianche, alte quattro metri, sormontate da filo spinato a lame di rasoio (la famigerata «concertina»). Al governo britannico queste recinzioni sono costate quindici milioni di euro – è il loro contributo, la Francia fornisce gli uomini – e ce ne sono anche sul lato ovest della città, nella zona dell’Eurotunnel, l’altra possibile via d’accesso all’Inghilterra. Il paesaggio, che da quelle parti era ricco di valli, alberato, verdeggiante, è stato trasformato in un gigantesco fossato. Lo scorso autunno la società Eurotunnel ha fatto abbattere tutti gli alberi in un’area di cento ettari per impedire ai migranti di avanzare senza essere visti e per facilitare la videosorveglianza: neanche un coniglio riuscirebbe a nascondersi. Non contenti, pochi mesi dopo hanno inondato la zona. Come dice Bruno Mallet: se potessero metterci dei coccodrilli, lo farebbero. E al di sopra di tutto questo il cielo, il magnifico cielo cangiante della Costa d’Opale, è solcato ininterrottamente dagli elicotteri. È tutto un roteare di lampeggiatori, ululare di sirene, rincorrersi di uomini. Non ce l’ho con Eurotunnel, che deve proteggere il suo traffico, non saprei dire chi sia il principale responsabile di questa situazione – lo Stato francese che non fa quello che dovrebbe fare, l’Inghilterra che prende dall’Europa quello che le conviene e poi ci lascia a sbrogliarcela da soli con quel che resta, o il presidente Bush che, invadendo l’Iraq, ha appiccato il fuoco a quell’Oriente che già de Gaulle definiva «complicato» —, non mi dimentico che devo parlare degli abitanti di Calais e non dei migranti – e se me lo dimenticassi ci sarebbe Marguerite Bonnefille a ricordarmelo —, ma era necessario inquadrare il contesto per capire che a Calais non è così facile pensare ad altro.
E comunque ci provano, a pensare ad altro: al lavoro, ai bambini, agli amici. Ci provano, ad avere una vita normale. Mi chiedo quale sarebbe, per me, la vita normale, se invece di trascorrere qui due settimane come giornalista dovessi vivere a Calais per qualche mese o qualche anno. «Quindici giorni, Carrère, quindici giorni! Pensa davvero di poter conoscere Calais in quindici giorni? Sa che le dico, farebbe meglio a restarci un po’ più a lungo e a farne un libro». Capisco il senso del consiglio, forse lo seguirò. Nel frattempo mi chiedo: se restassi a Calais un po’ più a lungo, come mi ritaglierei il mio spazio, che posti, che persone frequenterei? La risposta è facile, la mia corrispondente non aveva molte possibilità di sbagliarsi: almeno per i primi tempi frequenterei il Channel. Fondato da Francis Peduzzi, animatore culturale di Calais, nei padiglioni dell’ex mattatoio cittadino, questo immenso centro ha ottenuto lo status prestigioso di teatro stabile, con i contributi che ne derivano, e ha la pretesa, giustificata, di essere l’anima della città. Vasti edifici di mattoni rossi, parquet industriale, sale per gli spettacoli, una libreria, un caffè, poltrone e divanetti accoglienti... Il Channel, un luogo dove potremmo pensare di essere a New York o a Berlino, è una comunità. Tutti si conoscono e si salutano scambiandosi un bacio: lo staff, i clienti abituali, ma a dire il vero anche gli studenti, che vengono dal liceo vicino a fare i compiti. È il polmone «creativo» e ben riscaldato di una città sfavorita e divisa. È anche la più solida roccaforte, come si può facilmente immaginare, del partito pro migranti di Calais. Le associazioni che sostengono i migranti vi si riuniscono in maniera informale il mercoledì (insieme ai venditori di prodotti bio), e una schiera di giovani cool e scafati è sempre pronta a fare da guida agli artisti parigini desiderosi di visitare la Giungla.
Al Channel c’è una magnifica libreria di proprietà dell’editore Actes Sud, diretta da Marie-Claire Pleros. Marie-Claire è una donna graziosa, seria e dolce, con una gran bella voce: tutti le vogliono bene. Quando sono arrivato, mi ha aiutato moltissimo, mi ha fatto incontrare delle persone, e alcune di queste persone, di cui voglio scrivere i nomi, mi hanno invitato a casa loro: Dominik e Marie-Claire Richard-Multeau, Jean-Louis e Annie Bougas, Pierre-Yves e Mimi Chatelin. Rispetto agli standard di Calais, col suo tredici per cento di disoccupazione, sono dei privilegiati e se ne rendono conto, ma di sicuro non appartengono alle famose duecento famiglie più ricche del Paese: un perito contabile, una maestra elementare, il direttore del vicino Villaggio Vacanze (è a Sangatte, graziosa stazioncina balneare che dal punto di vista turistico ha risentito atrocemente dell’esposizione mediatica, ma ora tutta Calais ha lo stesso problema), un professore di educazione fisica da poco in pensione che, dopo aver partecipato diverse volte alla regata della Route du Rhum, sta preparando un giro del mondo in barca a vela – lui mette in conto quattro o cinque anni, ma sua moglie lo prende affettuosamente in giro: ne basteranno un paio... Lettori di «Télérama» (4), clienti abituali del Channel, votano rigorosamente a sinistra e crescono secondo gli stessi princìpi i figli, ragazzi molto aperti e socievoli, che fanno buoni studi a Lilla o a Parigi e sanno bene che, anche se lo volessero, non potranno vivere dove sono nati perché qui non c’è lavoro e forse non ce ne sarà mai più. Abitano nel quartiere di Saint-Pierre, l’ex comune di Saint-Pierre-lès-Calais, sorto nell’Ottocento con l’industria dei merletti. Le fabbriche e le case degli operai erano state costruite lì perché i borghesi di Calais, che non si chiamava ancora Calais-Nord, non volevano essere disturbati dal movimento incessante dei telai Jacquard o Leavers in azione ventiquattr’ore su ventiquattro. Tutti quelli che appartengono alla generazione dei miei ospiti, che è poi la mia, vale a dire quella degli ultracinquantenni, sentono ancora dentro di sé quel rumore molesto, eppure lo rimpiangono. Ora non c’è più. I merletti, che prima della guerra davano lavoro a circa ventimila persone, e ancora vent’anni fa a cinquemila, ne impiegano oggi non più di quattrocento. Di cento fabbriche, ne restano quattro. Gli edifici delle altre sono ormai solo enormi carcasse di mattoni, disossate e annerite, con cortili invasi da erbacce e ruggine, ideali per gli squatter. I migranti si rifugiavano lì dentro finché, l’anno scorso, il comune non li ha cacciati per ammassarli nella Giungla, dove davano meno fastidio, almeno così pensavano a Calais. Per evitare che gli saltasse in mente di tornare, porte e finestre sono state murate. Nel quartiere di Saint-Pierre, una volta operoso e pieno di vita, due case su tre sono disabitate e in vendita. Quelle che non sono vuote sono state suddivise in minuscoli appartamenti dai proprietari – che si sono trasferiti a Marck o a Coulogne, paesini nelle vicinanze di Calais e molto più tranquilli – e vengono affittate, attraverso gli uffici del comune, ai beneficiari di assegni sociali. Dietro le imposte chiuse e le tapparelle abbassate non si vede una luce. Le strade sono deserte, polverose, crepuscolari come durante un coprifuoco o uno stato d’assedio. Tanto più gradevole, quindi, la sensazione di calore e di conforto che si prova aprendo la porta di una casa amica. Queste case, dove di sicuro, se abitassi a Calais, sarei ospite fisso, assomigliano alle cabine del Titanic : piene di libri e di dischi, con cucine attrezzatissime, e nei bagni quadretti con citazioni di Edgar Morin, Stéphane Hessel e Pierre Rabhi, esponente di spicco dell’altromondismo, apostolo della decrescita di cui, davanti a un vassoio di formaggi meravigliosamente puzzolenti (maroilles, boulettes d’Avesnes, i grandi classici del Nord), mi hanno esposto la teoria del colibrì. Nella foresta scoppia un incendio, tutti gli animali fuggono, solo un colibrì vola fino al fiume, si riempie d’acqua il minuscolo becco e riparte velocemente per versarne il contenuto sulle fiamme. E continua così, andando avanti e indietro per tutto il giorno, fino a quando un ippopotamo gli fa notare che quelle poche gocce su un incendio così grande sono ridicole; lui risponde: forse, ma faccio la mia parte. La parte del colibrì, per i miei amici di Calais, consisteva, quando i migranti occupavano ancora gli edifici abbandonati nel centro della città, nel portargli cibo, coperte, vestiti, nel discutere con loro, e ora che li hanno evacuati e trasferiti nella Giungla, nel fare più o meno la stessa cosa, ma un po’ meno spesso. Si sentono in colpa, si chiedono angosciati quanto coraggio avrebbero dimostrato sotto l’occupazione nazista, gli piacerebbe impegnarsi di più – proprio come piacerebbe a me, che nel quartiere in cui vivo, a Parigi, avrei a disposizione tutti gli afghani e i curdi del mondo, se solo volessi essere un colibrì più energico.
«Sa, Carrère, qual è la cosa più difficile qui? L’inerzia delle cose. Se non si vuole correre il rischio di schiantarsi al suolo è meglio volare basso. Perché in questa città niente va per il verso giusto. Tutto si è fossilizzato, i radical chic chiusi nella loro bolla di vetro, i fessi nei loro casermoni di periferia, i politici nel loro grottesco habitus politichese, i professionisti del filo spinato tutt’intorno alla circonvallazione e nella zona dell’Eurotunnel. È avvilente, caro Carrère. La sera, quando le raffiche di vento raggiungono i 94 chilometri all’ora, noi torniamo a casa, al caldo, mentre... Ah, è vero, avevamo deciso di non parlarne».
Sa, Marguerite, io faccio quello che posso. Incontro delle persone, molte persone, e non solo i radical chic nella loro bolla di vetro, come dice lei – anche se mi rassicura sapere che a Calais ci siano ancora dei radical chic. Lei si è autoinvitata nel mio reportage, benissimo, allora mi darà una mano, mi consenta di citarla ancora: «Quando abbiamo saputo quale punto di vista aveva scelto, io e il mio compagno abbiamo sorriso. Ci siamo detti che così avrebbe avuto la libertà di parlare dei disoccupati, degli alcolizzati e dei consanguinei di cui è piena la città. Dei pompieri che votano Front National e delle coppie che finiscono in tribunale per aver avviato i figli adolescenti alla sessualità incestuosa, quando non sono impegnati a praticare una fellatio ai loro pastori tedeschi. Della confusione che si crea a inizio mese quando riscuotono il reddito minimo garantito e la gente fa la fila ai bancomat, va a fare la spesa da Auchan in taxi e si ubriaca per poi prendersi a botte nei bar di Calais-Nord».
Lei sta parlando, cara Marguerite, della cosiddetta zona di urbanizzazione prioritaria del Beau Marais, la Zup, e del quartiere del Fort-Nieulay: luoghi pericolosi, dove regna una violenza che alla mia amica Marie-Claire fa molta più paura della delinquenza dei migranti. Li chiamano «quartieri prioritari», salvo che ora, come dice con un sorriso stanco Kader Haddouche, tutta la città è prioritaria. Kader ha trentanove anni, è nipote di un harki (5) e figlio di algerini analfabeti – suo padre è un pensionato dell’amianto, sua madre fa la donna delle pulizie. Una famiglia del genere non è una cosa tanto comune in una città in cui, a differenza di quanto è accaduto nel bacino carbonifero, non c’è quasi stata immigrazione. Non c’era alcun bisogno di manodopera supplementare: per i merletti quella che c’era bastava e avanzava. Paradossalmente, per Kader è stata una fortuna: i merletti davano lavoro, come dice lui, solo ai «calesiani di vecchia data»; da arabo, non aveva nessuna possibilità e così, a differenza dei suoi amici d’infanzia, che potevano contare su un lavoro in fabbrica, si è messo a studiare. Oggi insegna biologia in un istituto professionale, mentre gli amici «calesiani di vecchia data» compaiono tutti, chi più chi meno, nel quadretto che lei, cara Marguerite, è stata così gentile da dipingermi: disoccupazione, alcolismo, disperazione e razzismo. Le circoscrizioni elettorali 20 e 21 dell’agglomerato urbano di Calais, che alle ultime regionali hanno dato più del cinquanta per cento dei voti al Front National, si trovano nel Beau Marais, dove si spara a zero sui migranti anche se non ce ne sono perché nemmeno loro hanno voglia di andarci. Kader è un militante, e si è presentato, come Marie-Claire, nella lista di opposizione capeggiata dal deputato socialista del Pas-de-Calais. Hanno preso il venti per cento, un risultato dignitoso. A lei, Marguerite, non dico niente di nuovo, ma forse non tutti i miei lettori sanno che la vita politica di Calais dal dopoguerra a oggi può essere riassunta in poche parole: trent’anni di destra conservatrice, quasi quaranta di un’amministrazione comunista al tempo stesso dogmatica e indolente che si è data da fare per scoraggiare tutti gli investitori adducendo il pretesto che non c’era bisogno di loro, e poi, dal 2008, la sindaca sarkozista Natacha Bouchart, criticatissima anche da chi le è grato – o non le è grato – di rappresentare l’ultimo baluardo contro il Front National. Kader mi ha portato in giro per il Beau Marais, dov’è cresciuto, vive tutt’oggi e si sente a casa – lo stesso non può dirsi per Fort-Nieulay, che non è il suo territorio e dove sta in guardia. Sotto una pioggerellina sottile e fredda abbiamo girovagato tra palazzoni fatiscenti e scivoli che fanno venire voglia di piangere, parlato con adolescenti che hanno abbandonato la scuola e stanno lì a grattarsi le palle e a farsi le canne in un grande atrio devastato e aperto a tutti i venti («Cazzo volete che facciamo? Non c’è un cazzo da fare») e visitato il centro sociale territoriale dove, afferma la direttrice, «si lavora sulla convivenza, il benessere e la convivialità». Dopo averci detto queste parole, sorride affranta, lo sa anche lei che è puro burocratese, eppure, mi dice Kader, qui lui ha letto i suoi primi Tintin, e qui sua madre viene ogni settimana per un corso di ginnastica: non è poco, e comunque non c’è altro. Anche gli ultimi negozi della Zup, But, La Foir’Fouille, hanno chiuso. L’unica cosa che è comparsa in questi anni è l’ufficio di collocamento dove i disoccupati devono presentarsi una volta alla settimana: così non hanno bisogno di spostarsi, di andare in centro e, infatti, tranne il sabato sera per fare a botte, in centro non ci vanno mai. Questo dettaglio mi è sembrato eloquente, ma devo dire, Marguerite, che è una magra consolazione e che non ho assistito a nessuna fellatio di nessun pastore tedesco.
Ho rimandato, gironzolato attorno alla Giungla, procrastinato il momento di andarci. Nella sua lettera lei ne parla come di «quella cosa che qui ci logora tutti, costantemente». Si sente eccome, che logora, che ossessiona, che divide, tracciando un confine non solo tra generosità ed egoismo, apertura e chiusura, persone istruite e Lumpenproletariat, quel Lumpenproletariat che ha trovato qualcuno ancora più disgraziato di lui da odiare, ma anche, concretamente, tra chi nella Giungla c’è stato e probabilmente ci tornerà e chi non ci ha mai messo piede. Non li biasimo, questi ultimi, penso che se abitassi a Calais forse farei come loro e rispetto Marie-Claire – che fino a oggi ha preferito non andarci per paura di essere sopraffatta dall’emozione e dalla consapevolezza della propria impotenza – molto più dei tanti incalliti turisti del dolore. Alla fine ci siamo andati insieme, accompagnati da Clémentine, una giovane donna che pur lavorando al Channel conosce bene il campo e ci porta spesso i visitatori. Di questa visita non dirò niente, né ora né dopo. Ci ho provato, ma è un posto che attanaglia. Occupa subito troppo spazio, è impossibile contenerlo nei limiti di pochi paragrafi. Vorrei però dire questo: gli abitanti di Calais che, come la prode Clémentine, vanno nel campo con stivali di gomma e zaino in spalla per aiutare, curare e informare, dicono quello che dicono tutti i volontari, di qualsiasi nazionalità, e che in un primo momento mi è sembrato solo un’irritante forma di romanticismo da missionari, ma che, ne sono convinto, corrisponde al vero: la Giungla è, sì, un incubo di miseria e di insalubrità, in cui succedono cose terribili, regolamenti di conti e stupri, e in cui non abitano solo pacifici ingegneri, studenti zelanti e virtuosi perseguitati politici, tutt’altro, ma vi si percepisce anche qualcosa di estremamente esaltante: un’energia, una straordinaria fame di vita, quelle che hanno spinto tanti uomini e donne ad affrontare un viaggio lungo, travagliato, eroico, di cui Calais, che pure sembra un vicolo cieco, è solo una tappa. Ed è questo, mi pare, il senso del graffito realizzato da Banksy su un muro di cemento all’ingresso della Giungla. L’amministrazione comunale aveva avuto la bella pensata di farlo cancellare, ma poi si è resa conto che si trattava di un’opera d’arte e, come se non bastasse, di un’opera dello street artist più celebre e più pagato al mondo, che ormai fa parte del patrimonio della città non meno dei Borghesi di Calais di Rodin. Il murale, che ritrae Steve Jobs con una sacca e un computer vintage, ci ricorda che all’inizio anche il fondatore della Apple era un bambino arrivato negli Stati Uniti da Homs, in Siria. Certo, la situazione non è esattamente la stessa, il parallelo è forzato, tanto più che Steve Jobs era solo di origine siriana, è nato a San Francisco ed è stato adottato, ma non importa: ci saranno migranti che moriranno cercando di raggiungere l’Inghilterra, altri che vivranno ai margini dell’Europa il loro destino di umiliazione e di povertà, ma questo non vieta ai siriani e agli afgani che sono arrivati a Calais affrontando rischi d’ogni genere e che adesso, nella Giungla, ne vedono di tutti i colori di considerare la Giungla come un momento della loro vita, una prova passeggera, un trampolino verso la realizzazione dei loro sogni. Molti bianchi del Beau Marais, che vivono e hanno sempre vissuto di sussidi di disoccupazione, si trovano in una situazione forse meno precaria ma per certi versi molto più stagnante, più irrimediabile, e io mi chiedo se questo non incida, in modo consapevole o meno, sul loro risentimento.
Lui: «...noi ci facciamo in quattro, li accogliamo a braccia aperte, ci preoccupiamo di farli stare al caldo, e vabbé, nel Paese loro c’è la guerra e tutti dicono che sono poveri, ma quando sei povero mica hai un cellulare da seicento euro e vestiti firmati e scarpe che costano dieci volte le mie. Quelli fanno finta di essere poveri, ma stia tranquillo che sono più ricchi di noi, non pagano le tasse, sono serviti e riveriti, ricevono dalle associazioni tutto quello che gli pare, e con i soldi vanno da Bricoman a comprarsi cacciaviti, martelli e seghe elettriche per tagliare le reti e scassare tutto quello che possono scassare. E chi è che paga? Noi, con le nostre tasse».
Lei: «Adesso gli fanno pure prendere la patente, mentre mio figlio non se la può permettere, la scuola guida».
Io: «Ah sì? Gli fanno prendere la patente?».
Lei: «Sì, l’ho letto su internet e ne ho visti due che uscivano dalla scuola guida Gambetta, e le assicuro che erano tutti contenti. Da Auchan, dove andiamo a fare la spesa per la settimana, guardi un po’ i nostri carrelli, e poi guardi i loro, pieni fino all’orlo, sacchetti da dieci baguette l’uno, intere confezioni di bottiglie di aranciata, patatine e altra roba di marca. Quei carrelli stracarichi sono una cosa orrenda, orrenda. Ma lo sa che hanno i negozi, nella Giungla? Le sembra legale? Un negozio francese paga le tasse, una licenza, loro no! Ai francesi nessuno ci pensa, dobbiamo cavarcela da soli, noi, mentre a loro danno tutto».
Lui: «Lanciano roba dai cavalcavia, attraversano l’autostrada come capita, se un francese fa una cosa del genere finisce dritto in galera, loro invece possono fare quello che vogliono. Sa che le dico? Che se ne vedo uno che attraversa l’autostrada davanti a me, mica rallento, accelero».
Lei: «Vanno in giro in bande di trenta, quaranta persone, ti guardano storto, cercano qualcosa da rubare. I miei figli hanno ventuno e diciassette anni, ma quando escono ho sempre paura che vengano aggrediti. Uno va in città da solo, loro invece sono tanti. Ci sono aggressioni in continuazione».
Io: «Voi siete mai stati aggrediti?».
Si guardano: «No».
Io: «E i vostri figli?».
Lei: «No».
Io: «Conoscete qualcuno che è stato aggredito?». Lei: «No, ma ce ne sono. C’è una signora, abitava allo Chemin des Dunes, era casa sua, ma i migranti le hanno reso la vita impossibile, e chi se ne è dovuto andare? Lei».
Lui: «Ha fatto un video. Lo può vedere sul sito dei Calesiani arrabbiati. Hanno cercato di organizzarsi, di difendersi, ma poi hanno lasciato perdere perché era diventato troppo pericoloso. Sono padri e madri di famiglia, e a loro non li protegge nessuno. La polizia ha detto che non poteva proteggerli, che non spettava a loro proteggere i francesi».
Lei: «Sa cosa c’è scritto all’ingresso del campo? “Un poliziotto, una pallottola”».
Ne ho decine e decine di dichiarazioni di questo genere, che lei, Marguerite, avrà già sentito un milione di volte. È quello che dice la gente di cui lei mi parla nella sua lettera, «quelli che quando si presentano dicono prima il cognome e poi il nome: Delcloy, Kevin o Carpulet, Monique». I calesiani medi, «famiglie monoparentali e bisognose» come le definisce malinconicamente Baptiste, un giovane cuoco che ho conosciuto, che legge Dostoevskij e somiglia ad Alëša Karamazov. Non è facile ascoltare discorsi del genere senza provare una certa spocchia di classe, perché più che discorsi di malvagi sono discorsi di poveri, e poveri di cultura oltre che di denaro. Non è facile nemmeno capire quanto c’è di vero in quello che raccontano e qual è il reale livello di insicurezza a Calais. Nessuno, né al comune, né al commissariato, ha risposto alle mie domande – non molto pressanti, è vero. L’insicurezza percepita, come si dice del freddo, varia a seconda dell’interlocutore, ma tutti ammettono che sulla città grava una minaccia, anche quelli come i miei amici, i lettori di Pierre Rabhi, che per ragioni ideologiche tendono a minimizzarla. I pro migranti la temono, chi è contro la auspica, ma tutti si aspettano che da un momento all’altro una catastrofe farà saltare questo equilibrio precario: l’omicidio di un migrante per mano di un abitante di Calais – cosa probabilmente già accaduta, come mi fa notare qualcuno – o di un abitante di Calais per mano di un migrante – questo no, non è ancora accaduto, altrimenti lo sapremmo. Anche se... I Calesiani arrabbiati sono convinti che sia vero proprio il contrario, che la stampa locale pubblichi in prima pagina articoli indignati se un migrante si sloga un mignolo, e, obbedendo a un ordine venuto dall’alto, nasconda accuratamente le malversazioni di cui sono vittime i francesi. Pensano che il governo favorisca i migranti a discapito degli autoctoni, che «Nord Littoral» sia pieno di infiltrati No Borders (non è l’impressione che ho avuto leggendolo tutte le mattine), e si sono assunti l’onere di lottare contro la disinformazione facendo il lavoro che i giornalisti non fanno: testimoniare quello che succede davvero a Calais, che nessuno sa e che, se si sapesse, farebbe scoppiare la guerra civile. Il sito del loro collettivo è tipico della cosiddetta fasciosfera, e anche se mi sarebbe piaciuto, per un gusto forse eccessivo delle sfumature e della complessità del mondo, ritrarre dei Calesiani arrabbiati che non fossero dei completi imbecilli, devo ammettere che quelli che ho incontrato sono quasi tutti così. Avevano già un debole per il manganello prima di darsi al giornalismo selvaggio e filmare instancabilmente con il cellulare scene di Crs presi a sassate o di camion sulla circonvallazione? E le ronde notturne a cui si dedicavano prima di essere dissuasi dalla polizia erano vere e proprie spedizioni punitive – come testimonia un video postato dai loro nemici giurati, i No Borders – o, come sostengono loro, erano opera di pochi elementi fuori controllo, razzisti e violenti, mentre loro non sono né l’uno né l’altro? Non lo so, tutto quello che posso dire è che sono tornato non nella Giungla ma ai margini del campo, in compagnia di due Calesiani arrabbiati: un uomo giovane e piacente che di mestiere fa il vigilante e una donnetta grigia e nervosa, entrambi, cara Marguerite, di quelli che dicono prima il cognome e poi il nome, solo che non lo fanno perché preferiscono tacerlo, il cognome: hanno ottime ragioni per diffidare dei giornalisti e temo che se leggessero queste righe sarebbe anche peggio. Lo scopo della nostra gita era «sostenere una residente». Ho già detto che i Calesiani arrabbiati non mi sono sembrati né particolarmente aperti né particolarmente interessanti, ma, a essere sincero, devo riconoscere che la residente ha ottime ragioni per lamentarsi e che abitare come lei in route de Gravelines deve essere un autentico inferno. Un inferno a cui concorre una quantità di cose: da un lato l’andirivieni incessante, sulla strada dissestata e fangosa, di orde di giovani migranti smunti, focosi, certamente in avanzato stato di deprivazione sessuale, come quelli di Colonia, che si servono dei giardini privati come scorciatoia verso l’autostrada, che passando rubano legna, mostrano il dito medio, tirano fuori l’uccello, catturano e mangiano animali domestici (così si dice); dall’altro la presenza, rassicurante, certo, ma alla lunga pesante, delle camionette dei Crs che si fermano e ripartono in quarta davanti alla casa tutto il tempo; infine il fatto che la casa, che uno ha sputato sangue per pagare, e il mutuo non è nemmeno finito, non vale più un centesimo. Non c’è dubbio, si ha bisogno di un sostegno. Così non mi è sembrato il caso di fare una predica alla residente sulla Francia terra d’asilo o citarle Matteo, 25, 35: «Ero straniero e mi avete accolto». Le ho chiesto comunque se da quelle parti la pensassero tutti come lei. In sua vece ha risposto la calesiana arrabbiata, mi ha indicato una casetta non troppo lontana e ha detto, abbassando la voce come se qualcuno potesse sentirci: «Quella laggiù è contro di noi».
Ovviamente, vado a suonare alla porta della casetta. Sulle prime non risponde nessuno, ma visto che davanti è parcheggiata una macchina insisto. Ho la sensazione che qualcuno mi stia osservando da dietro la finestra. Alla fine viene ad aprirmi la porta una giovane donna con un bambino in braccio. Di origine magrebina, sui trent’anni, graziosa. Le faccio il solito discorsetto, le spiego che sono in compagnia di una dei Calesiani arrabbiati, ma di lei ho saputo che la pensa diversamente. Me lo conferma con un sorriso e mi fa entrare. Mi dice come si chiama e mi autorizza a scrivere il suo nome: Ghizlane Mahtab. Mi accoglie senza nessuna diffidenza, parla di sé con piacere. Abita qui da un anno con suo marito, lui fa consegne a domicilio, lei era assistente in un laboratorio, ma ora è disoccupata, e in attesa di trovare un posto migliore lavora da McDonald’s (la figlia della calesiana arrabbiata, invece, da Quick). Hanno quattro bambini, tra gli otto e i due anni. La loro casa la chiamano tutti la «casa wifi» perché, quando la zona non era ancora circondata da una rete metallica, nel loro cortile c’era sempre una trentina di migranti. I vicini pensavano che lei gli avesse dato un codice d’accesso ma non era così, solo che in quel punto i telefoni prendevano e a lei non dava nessun fastidio che stessero là, non aveva mai avuto il minimo problema. I problemi certo ci sono, la sua vicina, per esempio, ne ha avuti, forse esagera un po’, ma ne ha avuti davvero, però a lei, Ghizlane, non è mai successo niente. Nessuno ha mai guardato dentro le sue finestre, nessuno le ha mai rubato i calzini stesi fuori ad asciugare né una baguette dal portabagagli della macchina, sempre strapieno, che lei lascia aperto quando scarica la spesa. Il fatto è che a lei piace il prossimo suo, che lei sorride agli altri, si interessa a loro. I bambini della Giungla vengono a giocare con i suoi, la più piccola li chiama «i vicini», il più grande «i poveracci». Pur essendo meno espansivo di Ghizlane, suo marito la pensa come lei, una volta ha regalato un paio di scarpe a un ragazzo che camminava scalzo, erano le scarpe con cui si era sposato, e non gli secca che lei vada a prendere il tè nella Giungla con i bambini. Be’ certo, ai vicini tutto questo non va giù, varie volte hanno chiamato la polizia per far allontanare i migranti che si raccolgono davanti a casa sua, e ci sono alcuni suoi parenti che non la salutano più perché credono che sia contagiosa, che abbia la scabbia o peggio. Altri pensano che abbia un amante nella Giungla, ma lei se ne infischia. Sa benissimo che ci sono furti, stupri, che succedono porcate di ogni sorta, e ce l’ha con i duecento stronzi che inguaiano la reputazione delle seimila persone perbene – ma non è forse lo stesso anche a Calais? Non ce ne sono dappertutto, di stronzi? E questi Calesiani arrabbiati che si mettono i passamontagna e prendono a sassate i migranti, che vengono giorno e notte a fare le ronde, evidentemente non hanno proprio un cazzo da fare. Quelle due donne che se ne stanno sempre lì, quelle da cui sono appena stato, non ce li hanno i bambini, non la puliscono la casa?
Ascolto Ghizlane, che intanto fa mangiare alla piccola dei Nuggets di McDonald’s, e naturalmente le sue parole mi confortano. Glielo dico, e lei mi sorride con l’espressione cordiale di chi ritiene sia una cosa normale, una cosa da niente, siamo tutti esseri umani, no? Due mesi fa dei tizi di «Paris Match» l’hanno intervistata e fotografata, lei non sa se poi l’articolo è uscito o no, dovrebbe informarsi – in ogni caso è perfetta nel ruolo dell’eroina positiva, aperta e spontanea: una buona cliente come la vecchia signora, ripresa tante volte, che nel suo villino mette a disposizione dei migranti decine di prese perché ricarichino i loro cellulari. La saluto e torno dalla residente che la calesiana arrabbiata continua a sostenere. Dico – ma lo sanno benissimo – che sono stato dalla vicina che è «contro di loro» e che la vicina dice di non aver mai avuto nessun problema. Allora la calesiana arrabbiata mi squadra da capo a piedi e segna un punto a suo favore: «E perché allora, se non ha mai avuto nessun problema, sta sempre con le persiane chiuse?». È strano, me n’ero accorto, ma non ci avevo dato troppo peso: era mezzogiorno, una bella giornata asciutta e soleggiata, eppure le persiane erano chiuse, abbiamo chiacchierato alla luce di una plafoniera e, per quanto Ghizlane fosse raggiante, non posso negare che la sua casa fosse serrata come quelle degli ultimi umani rimasti sulla Terra in un film di zombi. Seccato, dico: «È vero». La calesiana arrabbiata ha un’aria trionfante, me lo ripete almeno tre volte: «Allora perché sta sempre con le persiane chiuse? Perché, eh? Perché vive al buio?».
Mi avvicino alla conclusione, Marguerite. Aveva perfettamente ragione, quindici giorni sono un tempo ridicolo. A Calais non ho visto niente, o comunque pochissimo. E delle cose che ho visto ce n’è una quantità che non ha trovato posto in questo resoconto... Avrei voluto parlare dell’industria dei merletti, del suo antico splendore e della sua attuale decadenza, delle decine di mestieri altamente specializzati che sono connessi con questa attività: c’è chi crea il disegno, chi lo riporta su carta millimetrata, chi lo trasferisce al computer, chi si occupa della foratura dei cartoni, chi carica le bobine, chi le pressa, chi sistema i carrelli, poi ci sono le orlatrici e le rammendatrici, e tutte queste minuziose competenze convergono verso quella del tullista, il von Karajan dell’industria tessile, domatore rispettato di macchine che pesano venti tonnellate, sono lunghe dodici metri e producono un tessuto che verrà utilizzato soprattutto per realizzare mutandine e reggiseni della consistenza di una ragnatela. Avrei voluto abbozzare il ritratto di Anne Le Deist, sono sicuro che la conosce, è una frequentatrice abituale della Betterave, una disegnatrice che si è formata da Noyon, una delle ultime fabbriche ancora in attività, e che ora lavora come freelance per clienti cinesi; quello di Bruno de Priester, l’ultimo addetto alla foratura a mano dei cartoni di Calais, che ho avuto il piacere di vedere, al lavoro davanti alla sua macchina, muovere le dita come un organista; e quello di Olivier Noyon, il proprietario, che sembra uscito da un film di Claude Sautet. Michel Piccoli lo avrebbe interpretato in modo magnifico, e oggi a Vincent Lindon piacerebbe senz’altro vestirne i panni sullo schermo. Figlio di un industriale del Nord, bell’uomo, elegante, cordiale, si era già fatto un nome a Parigi nel settore degli audiovisivi, alla Cité des sciences, poi alla Cité de la musique, quando, in piena midlife crisis, ha accettato di riprendere in mano l’azienda di famiglia per non essere costretto a venderla. È probabile che sua moglie, montatrice cinematografica, non fosse proprio entusiasta al pensiero di stabilirsi a Calais. Olivier, o il signor Olivier come lo chiamano tutti in fabbrica, non sapeva niente di merletti, ma ha imparato il mestiere, se ne è innamorato ed è anche molto amato, o almeno così mi è parso, benché da quando è arrivato abbia dovuto affrontare la spietata concorrenza asiatica, trasferire parte degli impianti nello Sri Lanka e lanciare, in quindici anni, tre piani di licenziamento. E l’abate Delenclos! Sono convinto che conosce anche lui, Marguerite, il parroco di Fort-Nieulay, ci sta da cinquantatré anni ed è un personaggio degno di Bernanos e di Pialat: un colosso spossato, ridanciano, una vera carogna, che ammette di essere «totalmente sincero e piuttosto tenero di cuore», l’unico al mondo capace di dire che «in fondo Fort-Nieulay non è poi così male». Un tempo aveva dei parrocchiani, ora non ne ha quasi più, la sua chiesa è vuota, ma considera normale che i vecchi se ne vadano e i giovani non li sostituiscano, «nessuno è affamato di religione da queste parti, e poi non siamo qui per fare numero, solo per testimoniare Cristo», e anche se non ha più parrocchiani ha pur sempre dei vicini, che vanno a trovarlo, a chiedergli consiglio, e che lui aiuta a non fare cazzate troppo grosse: finché in una città ci sono uomini così, finché ce n’è anche uno solo, si può ancora sperare – ma ha ottantaquattro anni... Devo davvero concludere, Marguerite, ho a disposizione solo quarantamila battute, non ho più spazio per parlare del sensale marittimo Antoine Ravisse, un uomo che pure mi è piaciuto moltissimo, un uomo che nella sua vita non è mai andato a dormire senza prima passare dal porto a guardare il mare. Né della sua nuova compagna, Valérie Devos, che fa l’avvocato ed è iperattiva almeno quanto lui è placido, e mentre lui guarda il mare lei racconta, spara a raffica storie spaventose di regolamenti di conti tra i traghettatori albanesi di cui è difensore d’ufficio. Devo proprio ringraziarla, Marguerite Bonnefille, per avermi sfidato, per avermi guidato pur non rivelandomi il suo nome, la sua faccia, il suo mestiere. Ma mi ha dato un grande indizio: questo passaggio della sua lettera, se lo ricorda? «Ecco, sono uscita e ho preso la macchina per andare a documentare gli scontri in città. Assisterà mai, lei, a questi scontri, di notte? Avvicinandomi tremavo, sa, avevo paura di beccarmi un sasso nel parabrezza o una manganellata. Ma silenzio! Lei ha scelto un altro punto di vista».
Una donna che esce di notte per «documentare gli scontri in città» non può che essere una giornalista. Lei è una giornalista, Marguerite, una giornalista locale, e probabilmente lavora nello stesso ufficio del mio amico Bruno o in quello di Marie-France. E visto che è del mestiere sa bene quanto è importante, in un articolo, la conclusione. Non riuscivo a non pensare alla storia delle persiane di Ghizlane Mahtab. Le ho telefonato, per chiederle come mai fossero chiuse. Lei mi ha risposto con gentilezza, come se io avessi voluto mettere in dubbio non la sua fiducia nell’umanità, ma le sue qualità di padrona di casa: «Ah sì? Le persiane erano chiuse? È che non avevo ancora fatto le pulizie. Ma se viene adesso vedrà che è tutto aperto». Ho pensato che a partire da quell’unico particolare era possibile raccontare due versioni della storia completamente diverse. Da un lato quella che lascia un barlume di speranza, uno squarcio di cielo azzurro, che dice che se si è disponibili e sorridenti si hanno in cambio disponibilità e sorrisi. Dall’altro quella che piacerebbe, per esempio, a Éric Zemmour (6): la verità non è solo che la Giungla è un inferno, ma anche che quel barlume di speranza è una menzogna, e che se una giovane donna racconta ai giornalisti la sua storia da cartone animato lo fa solo perché è più bello e dà di lei un’immagine gratificante, ma in realtà vive barricata in casa, «al buio» come dice la calesiana arrabbiata, e i Calesiani arrabbiati, per quanto antipatici, dicono la verità. Mi sono chiesto, se scrivessi una storia inventata, quale versione sceglierei. Ma la mia non è una storia inventata. Allora, il giorno della mia partenza, sono tornato in route de Gravelines e, pur sapendo che non ha nessun valore statistico e che quello che è vero in un determinato momento non lo è in un altro, devo dirle, Marguerite, che mi ha fatto piacere constatare che quel venerdì 22 gennaio 2016, alle undici del mattino, le persiane di Ghizlane Mahtab erano aperte.